Ci sono alcuni protagonisti politici in Palestina e Israele, che da anni sono impegnati in forma non violenta, e che potrebbero cambiare il corso delle cose, se avessero la concreta possibilità di operare. Tutti ci hanno detto che la prima di queste condizioni è il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Abbiamo incontrato Mustafa Barghouti, medico, attivista e politico del Palestinian National Initiative, da anni impegnato nella lotta non violenta contro l’occupazione israeliana.
Abbiamo poi avuto un confronto con Fadwa Barghouti, moglie di Marwan Barghouti, che da oltre 23 anni è nelle carceri israeliane in condizioni critiche. Infine, abbiamo incontrato Jamal Zakut, direttore dell’associazione Al’Ard.

A tutti loro, come già fatto ieri sera con i parlamentari israeliani di Adash, che si oppongono con grande coraggio a Netanyahu, abbiamo dato una notizia, ovvero che qualche giorno fa abbiamo presentato in Parlamento, insieme al Partito Democratico e al Movimento 5 Stelle, per la prima volta una mozione unitaria che chiede impegni precisi al governo:

  • sanzioni al governo israeliano;
  • sospensione degli accordi di associazione UE-Israele;
  • la fine dell'occupazione militare illegale dei Territori palestinesi e degli insediamenti israeliani;
  • riconoscimento dello Stato Palestinese.

Essere qui, incontrare chi vive ogni giorno l’occupazione, ascoltare i racconti, le sofferenze, ma anche la determinazione e la dignità di chi continua a lottare per la pace e la giustizia, ci dà forza e responsabilità.

Portiamo in Italia le loro voci, con l’impegno a non lasciarle cadere nel silenzio.


Shamakh, giovane dottore di Jenin

Oggi siamo stati a Jenin, forse la città palestinese in Cisgiordania che sta subendo gli attacchi più pesanti da parte dell’esercito israeliano. Abbiamo incontrato Kamal Abu Al-Rob, il governatore della città. Come tutte le persone che abbiamo incontrato in questi giorni in Palestina, ci ha accolti con sorrisi sinceri. Poi, lentamente, ci ha raccontato la sua storia. Una storia emblematica del dolore di un intero popolo.

A dicembre del 2023 ha perso Shamakh, suo figlio, ucciso dall’esercito israeliano. Shamakh aveva 25 anni e si era appena laureato in medicina, quando, un giorno di dicembre, l’esercito israeliano compì un raid vicino a casa sua, ferendo molte persone. Il padre invitò lui e suo fratello a uscire per prestare soccorso medico ai concittadini colpiti. Entrambi furono colpiti da spari. Shamakh è morto, mentre suo fratello è sopravvissuto, ma porta ancora i segni del fuoco.

“Tutto questo è successo a cinque minuti da qui”, ci ha detto. Ogni giorno, per entrare a casa sua, è costretto a passare davanti al luogo dove il figlio è stato ucciso. Lo stesso luogo dove, pochi mesi prima, avevano festeggiato la sua laurea in medicina.

Questo è uno degli obiettivi principali dell’occupazione israeliana: cancellare i volti, le storie, le vite. Ridurre tutto a numeri, a bollettini, a brevi aggiornamenti che scorrono sui nostri smartphone. Ma dietro quei numeri ci sono persone. Padri, madri, figli, fratelli. Ascoltare queste storie, guardare negli occhi chi resta, è l’unico modo per capire davvero cosa sta succedendo. E per non voltarsi dall’altra parte.


E qui potete vedere come il morale esercito dello Stato ebraico ha ridotto il campo profughi di Jenin...

Adesso, chiedetevi perché?