Proseguiamo la nostra analisi del lessico giuridico romano. Esamineremo il significato di tre vocaboli: mos, res  e factum , tutti di natura tecnico-giuridica.  Il primo termine è collegato all'indoeuropeo mus, che vale "comportarsi con misura", per cui  significa "modo di agire", "consuetudine", "costume", "morale". Nella dottrina giuridica, anche romanistica, di solito si tende a "isolare" questo termine, soprattutto nell'ultima accezione,  dal diritto, come se esso non ne facesse parte, seguendo suggestioni positivistiche kelseniane. Altre volte le fonti romane sono state interpretate  evidenziando una contraddittorietà: se da una parte i Romani non distinguevano chiaramente tra morale e diritto, dall'altra essi, in linea di fatto, evitavano nel ragionamento giuridico qualsiasi considerazione di ordine etico-morale. L'isolamento tra diritto e morale, si sarebbe tuttavia attenuato nel "diritto nuovo", cioè giustinianeo, grazie all'influsso cristiano. Non manca una corrente della romanistica che afferma vigorosamente l'appartenenza della morale al diritto, basandosi su testi romani particolarmente significativi, come quello di Ulpiano sui tria iuris praecepta .

A nostro parere, la contrapposizione tra mos e ius non esiste, in quanto le regole morali, come quelle religiose, sono ricomprese nel ius.   Res è un termine polisemico, di larghissimo uso, sia considerato di per se, sia in unione con altri sostantivi, ad esempio "natura rerum" od "ordo rerum", espressioni che indicano la totalità del mondo. Si tratta di un nome "collettivo", atto cioè ad indicare non solo il singolo ente, ma anche una sequenza o pluralità di atti legati dal raggiungimento di un fine. Il termine deriva da una radice indoeuropea, ra, con il significato di "effetto dell'azione di entrare in possesso", donde il latino res, che vale cosa, bene, patrimonio; l'italiano cosa deriva non da res, ma da "causa", nel significato di motivo, ragione, origine e ancora situazione, affare, incarico. Particolarmente importante è la locuzione res publica, tradotta in italiano, e impropriamente, con "Stato", termine moderno che non ne rende la valenza semantica: secondo il romanista Riccardo Orestano, sino all'Impero, questa locuzione è stata "comunque una sintesi di elementi personali e reali che trascende di gran lunga l'aspetto patrimoniale". E ancora: " …le più risalenti testimonianze dell'esperienza giuridica repubblicana ci presentano gli ordinamenti giuridici nel loro insieme come res, come "cose", cioè, di volta in volta romana, latina, albana, publica, identificando sovente res publica con res populi Romani".

Ed è accertato che alcune volte aggregati di uomini liberi venivano designati proprio col termine res. Pare certo, dunque, che il significato di res vada oltre quello puramente crematistico, per abbracciarne uno che ricomprende anche l'uomo libero, e non soltanto lo schiavo, visto, a seconda della prospettiva assunta, ora come "cosa" in senso patrimoniale, ora come persona. A proposito del linguaggio più arcaico (seguo sempre l'Orestano), è oltremodo interessante la problematica del c.d. "realismo nominale", che riflette una concezione fisicalistica e materialistica. In sostanza, secondo la visione più risalente dei Romani, ma anche degli Italici, il significante (nomen) e il significato (res), sarebbero un tutt'uno, poiché è il nome che, evocando la cosa, la fa esistere, la rende quello che è in realtà. Dobbiamo avvertire però che solo nel latino medioevale il termine res acquisterà il senso di "ente", di "ciò che è". "Factum" vale caso, fatto, evento. Avvertiamo che il brocardo "ex facto oritur ius" (dal fatto nasce il diritto), non è romano, ma medioevale, anche se esso si presta a rendere l' opinione dei Romani stessi in materia. A proposito del factum, bisogna distinguere il ruolo che esso aveva nel diritto privato e nel diritto pubblico.

Nel diritto privato vale senz'altro la massima "da mihi factum, dabo tibi ius" ( dammi il fatto ed io ti darò il diritto), nel senso che è la giurisprudenza, pontificale, laica e classica, che si occupa di sceverare il diritto dalla ganga degli elementi fattuali e di attribuirlo, mediante il responsum, al richiedente, con una operazione intellettuale e concettuale di grande finezza. Nel diritto pubblico, invece, le cose vanno in modo diverso, nonostante fosse attiva in questo settore la giurisprudenza pontificale (in particolare augurale), che rilasciava responsi in tutto e per tutto uguali a quelli privatistici. Ma tale giurisprudenza smise di funzionare nel caos delle guerre civili, quando il diritto pubblico divenne esclusivamente "fattuale", cioè basato sul fatto anche violento. Riportiamo la tragicomica frase di Cicerone: "disceptare cum pilis de iure publico" ( discutere con le lance di diritto pubblico). Classico elemento fattuale posto a base del diritto pubblico romano è la necessitas intesa come "norma agendi" che guida lo sviluppo della Costituzione e dei fatti istituzionali romani. E' stato detto, a ragione, che i Romani ebbero del loro diritto pubblico una visione "impressionistica", ben lontana dall'organicità con cui seppero elaborare il diritto privato.