C'è un riflesso condizionato nella politica italiana, una dinamica ricorrente che si ripete con cadenza quasi rituale: davanti ai problemi concreti, immediati, quotidiani, si alza lo sguardo altrove. Si va oltreconfine, si scavalcano le Alpi, il Mediterraneo, persino gli oceani, per parlare d’altro. Non per senso di responsabilità globale, ma per elusione. È la geopolitica come diversivo, la strategia dell’astrazione: prima l’Ucraina, poi Gaza, oggi l’Iran. Domani chissà. Un carosello di dichiarazioni solenni, condanne ufficiali, dichiarazioni di principio, come se l’Italia fosse una potenza globale, quando invece è sempre più marginale, inascoltata, flebile nella sua presenza internazionale.
Non è cinismo. È presa d'atto della realtà dei fatti. L’Italia, dal secondo dopoguerra ad oggi, ha progressivamente perso capacità di incidere sullo scenario mondiale, salvo che essere diventata il bed and breakfast del mondo, grazie alle sue bellezze naturali e artistiche. E non per mancanza di storia, di cultura o di peso morale, ma per una cronica assenza di visione strategica. Il vero problema, infatti, non è che si parli di Medio Oriente, di Teheran, di Mosca. Volere la pace nel mondo e parlarne è giusto e sacrosanto. Il problema è che lo si fa a reti unificate fino allo sfinimento, come se bastasse solo parlare di pace per porre fine alle guerre in giro per il mondo. Si recita una parte in un copione mondiale in cui l’Italia, al massimo, è l'ultima delle comparse. E intanto si evita con cura la scena principale: quella interna.
La casa brucia, ma si discute del meteo su Marte. Gli stipendi italiani sono tra i più bassi in Europa e l'età pensionabile la più alta. La sanità pubblica è in trincea, con ospedali sotto organico, personale stremato, liste d’attesa che sfidano ogni razionalità. La scuola è ridotta a un campo di resistenza, più che di formazione: senza fondi, senza riconoscimento, senza un progetto. Il sistema carcerario è prossimo al collasso, le infrastrutture cedono sotto il peso dell’incuria, i territori franano e nessuno si assume la responsabilità di intervenire. E ancora: il precariato dilaga, la natalità crolla, la fuga dei giovani è ormai una diaspora silenziosa e gli immigrati continuano a sbarcare a centinaia di migliaia per mare, per terra e per cielo..
Ma su tutto questo, la politica tace. Oppure balbetta. O, peggio, litiga per guadagnare visibilità, barattando i problemi reali con l’illusione mediatica della centralità internazionale.
E non va meglio guardando dall’altra parte dell’aula parlamentare. L’opposizione, che per sua natura dovrebbe essere coscienza critica, pungolo e alternativa, si è a sua volta accomodata nel salotto della geopolitica da talk show. Anche lì si discute di guerre lontane, si teorizzano scenari futuri, si invocano strategie di pace planetaria, mentre nei quartieri italiani si fatica a pagare l’affitto, a fare la spesa e uscire per strada fa paura. Un paradosso tragicomico: una pulce che cerca di ruggire più forte del leone.
In fondo, è più comodo parlare di conflitti globali che affrontare quelli interni. È più facile condannare Hamas o Netanyahu che riformare un sistema fiscale marcio di ingiustizie, un welfare insufficiente, un mercato del lavoro schizofrenico. La geopolitica è una comfort zone: si può dire la propria senza rischiare nulla, senza dover cambiare davvero qualcosa.
Si riempiono i discorsi di “sovranità”, come fosse un mantra identitario, ma poi si abdica alla sovranità reale: quella sulla vita delle persone, sul destino delle famiglie, sulla dignità dei lavoratori e dei pensionati, dei bambini, degli anziani e dei malati. Sovranità è dare risposte a chi aspetta un intervento del 118 che non arriva in tempo. È garantire un tetto a chi è sotto sfratto. È offrire un futuro ad un neolaureato che oggi ha come unica prospettiva l’espatrio. Sovranità è fare scelte scomode ma giuste. È dire la verità, non inseguire il consenso a colpi di slogan.
La politica italiana ha perso il senso della misura. Non si tratta di rinunciare a discutere di ciò che accade nel mondo, ma di farlo con consapevolezza del proprio ruolo, delle proprie possibilità, e soprattutto delle proprie priorità. Perché un Paese che dimentica sé stesso mentre parla d’altro, è un Paese che si allontana ogni giorno di più dai propri cittadini.
Ciò che servirebbe oggi è una classe dirigente capace di guardare in faccia il dolore reale, di ascoltare i bisogni concreti, di rimboccarsi le maniche. Una politica che scelga di stare nei problemi veri, piuttosto che tra le nuvole delle conferenze internazionali. Che faccia meno dichiarazioni e più riforme. Meno tweet e più leggi giuste. Meno slogan e più servizi.
Solo così l’Italia tornerà ad essere, se non una potenza globale, almeno una nazione giusta per chi la abita. Ed è già tanto. Anzi, è tutto.