«La gestione caratteristica è virtuosa. La perdita, sulla base del piano industriale asseverato da uno dei migliori studi italiani di consulenza (Pirola – Pinnuto – Zei) porta all’assorbimento della medesima tra l’esercizio 2017-18. Percorreremo con forza le strade del potenziamento del funding e del 2×1000, di recupero delle somme ancora dovute da una parte minoritaria di parlamentari, nonché con una necessaria ulteriore diminuzione dei costi.»

Questo è quanto dichiarava all'Huffington Post nel giugno dello scorso anno il tesoriere del Partito Democratico Francesco Bonifazi. Perché tale dichiarazione? A seguito della pubblicazione del bilancio con cui il Pd riassumeva la gestione del partito nell'anno 2016. Mentre nel 2015 i democratici avevano chiuso il bilancio in pareggio, nel 2016 si era registrata una perdita di 9,5 milioni di euro.

I motivi di quel buco che ha portato alla chiusura de l'Unità e alla cassa integrazione, in attesa del licenziamento, della quasi totalità dei dipendenti del Pd, erano dovuti alle spese sostenute dal partito per le campagne elettorali nel 2016: 11,6 milioni di euro. La somma è stata spesa quasi esclusivamente, nonostante le amministrative (dove si votò anche nelle grandi città come Roma e Milano) per la campagna referendaria "Basta un sì".

A quella cifra sono da aggiungere anche i circa 2 milioni forniti dai gruppi parlamentari di Camera e Senato, sempre a supporto del sì al referendum costituzionale.

Però, a gennaio di quest'anno, dopo che Pietro Grasso non aveva accettato la candidatura del Pd alle politiche preferendo quella di LeU, il tesoriere Bonifazi iniziò contro di lui una campagna mediatica accusandolo di non aver rispettato gli impegni assunti con il partito al momento dell'elezione, non versando le quote stabilite al gruppo del Senato. Secondo Bonifazi, Grasso veniva dipinto come un responsabile del dissesto finanziario del Partito Democratico.

Dato che il Pd non aveva digerito lo sgarbo di candidarsi con la sinistra di Liberi e Uguali, Bonifazi ha portato la vicenda in tribunale che, in questi giorni, ha emesso un decreto ingiuntivo nei riguardi dell’ex presidente del Senato, imponendogli di pagare 82.000 euro di quote che i parlamentari Dem si erano impegnati di versare mensilmente al partito.

Grasso ha ribattuto che si opporrà al decreto quando gli verrà notificato, aggiungendo di non sapere su quali basi possa essere stato emesso... anche perché nessuno gli ha mai chiesto "una determinata cifra mensile nel corso di tutta la scorsa legislatura".

Visto che Bonifazi, disperatamente e giustamente, cerca di risistemare i conti del Partito, perché non chiede indietro dei soldi anche a Renzi? Infatti, il senatore semplice, adesso è pieno di liquidità, tanto da permettersi di poter comprare una "casa" da 1,3 milioni di euro, pagando cash 400mila euro di caparra.

In fondo, niente di male, visto che, nonostante sia senatore, firma contratti per trasmissioni televisive e gira il mondo per tenere conferenze (e non si sa bene per quale motivo) remuneratissime.

Dato che Renzi è il principale artefice del disastro (anche) finanziario del Pd e visto che adesso ha così tanti soldi a disposizione, perché Bonifazi non pretende che il senatore semplice ne dia una parte per ripagare i danni fatti? Al Senato gli siede pure a fianco... non dovrebbe essere tanto difficile chiederglielo.