Con buona pace – è proprio il caso di dirlo – della sinistra italiana, che ancora oggi si ostina a proporre un’idea di sicurezza nazionale basata più sulla retorica del dialogo che sulla concretezza degli investimenti - come se le loro chiacchiere da salotto bastassero a fermare le bombe - il vertice NATO dell’Aja ha sancito un cambio di passo epocale: entro il 2035, gli alleati dovranno destinare almeno il 5% del PIL annuo alle esigenze di difesa e sicurezza, in conformità con l’articolo 3 del Trattato di Washington. Un impegno che spazza via ogni illusione “pacifista” a costo zero e che rimette al centro la verità troppo spesso ignorata dal dibattito politico nostrano: la pace si costruisce con la deterrenza, non con le chiacchiere.

Chi pensa che bastino i “colloqui di pace” a fermare i missili o le buone intenzioni per garantire la sicurezza dei cittadini, dovrebbe interrogarsi sul contesto in cui ci troviamo. La minaccia russa è considerata una sfida a lungo termine alla sicurezza euro-atlantica. La guerra in Ucraina, pur non essendo esplicitamente definita nella dichiarazione come “guerra di aggressione”, resta il simbolo evidente di un ordine internazionale violato. Eppure, in Italia si trovano ancora forze politiche – per lo più collocate a sinistra – che fingono che tutto si possa risolvere con una tavola rotonda e una manciata di buoni propositi.

 La realtà è un’altra. La NATO parla il linguaggio della responsabilità sovrana: ciascun Paese deve fare la sua parte, non solo in termini morali, ma soprattutto economici. È finito il tempo in cui si poteva delegare agli Stati Uniti la totalità dell’onere della difesa occidentale. Il documento finale dell’Aja esige che ogni alleato presenti piani annuali concreti per incrementare progressivamente la spesa militare, con una revisione fissata già per il 2029. Questo non è un suggerimento: è un vincolo strategico.

E l’Ucraina? La formula scelta è ambigua ma chiara nel suo pragmatismo. Nessun accenno a un ingresso a breve termine nella NATO – il “percorso irreversibile” proclamato a Washington un anno fa resta sullo sfondo – e nessun riferimento a cifre precise come i 40 miliardi annui promessi nel 2024. Tutto diventa “un impegno sovrano”. In altre parole: ognuno dia quel che può, ma dia davvero. Niente obblighi formali, ma nemmeno alibi per l’inazione.

E mentre l’Europa stringe i ranghi di fronte a minacce convergenti come terrorismo e revanscismo russo, l’Italia deve decidere da che parte stare: dalla parte della sicurezza condivisa o da quella del “pacifismo retorico”, che rischia di lasciare il Paese disarmato e dipendente.

È il momento della verità. Non servono slogan ideologici, serve visione strategica. La pace, oggi più che mai, si difende con mezzi reali. E con scelte politiche coraggiose.

In Italia, questa linea trova pieno sostegno nell’attuale governo di centrodestra, guidato da Giorgia Meloni, che ha sposato con convinzione la necessità di investire nella difesa nazionale, accettando gli obiettivi fissati in sede NATO. È un cambio di paradigma rispetto alla visione della sinistra, che continua a mostrarsi diffidente – quando non apertamente ostile – verso ogni ipotesi di riarmo. Ma che lo si condivida o meno, questo è il programma del governo in carica e tale resterà per almeno altri due anni e mezzo.

La vera sfida, però, sarà trovare il giusto equilibrio: perché se è vero che senza sicurezza non c’è libertà, è altrettanto vero che senza scuola, sanità, pensioni e stipendi dignitosi, una democrazia non regge. Difendersi è indispensabile. Ma lo è altrettanto saper difendere il nostro modello sociale. La partita si gioca qui: non tra ideologia e propaganda, ma tra responsabilità e visione.