Il medical drama come lo conosciamo oggi, che frequentemente affolla i palinsesti televisivi e le piattaforme di streaming, si può dire che nasca con ER (in Italia tradotto con ER – Medici in prima linea) nel lontano 1994. Già in passato erano stati realizzati per la televisione telefilm ambientati in un contesto medico (Dr. Kildare, Trapper John e M*A*S*H* per esempio), ma nulla si era mai avvicinato alla “rivoluzione” portata sugli schermi da George Clooney, Anthony Edwards, Julianna Margulies e colleghi. Un telefilm ancora oggi unico nel suo genere, un telefilm che ha fatto appassionare alla medicina chi scrive e lo ha portato prima a sognare di esercitare la professione medica e poi a diventare medico davvero.

Forse non tutti ricordano che il “papà” di ER è Michael Crichton e che le basi del telefilm sono state gettate dallo scrittore con il suo libro “Casi di emergenza”, quindi questo show televisivo è di fatto “figlio” di un libro. Probabilmente sarà anche per questo che a trent’anni di distanza dalla prima messa in onda piace ancora tanto e, a mio giudizio, resta il migliore nel suo genere.

Chi è della mia generazione ricorda molto bene le sequenze adrenaliniche che iniziano con l’apertura delle porte del pronto soccorso per poi descrivere minuziosamente la gestione di un politrauma, di una vittima di un trauma della strada o di un’aggressione da parte degli eroici medici in una sala emergenza di un ospedale di Chicago.  Ma ER è stato anche altro perché oltre all’aspetto prettamente medico affrontava anche l’aspetto umano focalizzandosi anche sulle relazioni medico-paziente e su quelle affettive tra i sanitari dell’ospedale.  

Da lì in poi il filone si è arricchito di diversi titoli, da Grey’s Anatomy a Private Practice fino ad arrivare ai più recenti Dr. House, Code Black, New Amsterdam, The Good Doctor e Chicago Med.

Probabilmente molti miei colleghi hanno subito la mia stessa sorte e si sono innamorati della medicina guardando questi telefilm americani e forse qualcuno lo ha fatto anche guardando le poche serie televisive realizzate in Italia, ma spesso l’innamoramento ha portato ad una cocente delusione, un po’ come cantava Fabrizio De’ Andrè nella sua meravigliosa “Un medico”. La realtà, infatti, è molto diversa da ciò che si vede appassionandosi ad occhi sgranati alle serie tv che, pur avendo il pregio di far sognare lo spettatore per il pathos, per l’adrenalina e per i valori che vogliono comunicare, non rispecchiano però fedelmente quella che è la quotidianità di un operatore sanitario, sempre più gravata dall’opera di componenti non sanitarie come quella sindacale e quella politica, o almeno non rispecchiano quella di un medico che esercita nel Belpaese. E non solo perché la maggior parte sono realizzate basandosi sull’efficiente ed efficace modello sanitario di Oltreoceano.

Il medical drama, al di là delle molteplici licenze che sceneggiatori e registi si prendono sacrificando sempre più spesso la verosimiglianza sull’altare della spettacolarità, oltre a farci sognare, ha certamente il pregio di poter trasmettere un messaggio positivo nel campo della prevenzione, della cura di alcune patologie e della speranza anche in alcune situazioni che possono sembrare estremamente serie. Tuttavia è sempre fondamentale che lo spettatore si conscio che quello che vede è frutto dell’inventiva di un bravo sceneggiatore, è finzione.  

Se il medical drama lo si intende come un modo per trascorrere del tempo ad appassionarsi a vicende di cui si comprende la non veridicità perché ci piace partecipare al pathos dei protagonisti, immedesimandoci nell’eroe di turno in camice bianco che come il cavaliere delle fiabe uccide il drago e salva la principessa, credo che sia uno dei migliori prodotti televisivi insieme ai telefilm del genere “crime”.

Il problema, a mio giudizio molto serio, sorge però se lo spettatore crede che ciò che sta vedendo corrisponda alla realtà e che quindi la vita fuori dalla TV o dal PC sia quella che vede sullo schermo. Questo confondere la finzione con il vero, purtroppo, si verifica sempre più spesso al giorno d’oggi, soprattutto perché al progresso tecnico-scientifico si sta sempre più associando un analfabetismo culturale di ritorno. Non è una questione legata solo a diagnosi inverosimili, a cure sperimentali create dal nulla nello spazio di pochi fotogrammi o a malattie estremamente rare che l’eroe di turno conosce invece come se non avesse affrontato altro nella sua pratica quotidiana, il problema è il messaggio fuorviante e distorto che lo spettatore “non addetto ai lavori” recepisce erroneamente vedendo quelle immagini. Sotto questo punto di vista credo che il pullulare di nuovi telefilm di argomento medico possa aggravare questa situazione figlia dell’analfabetismo funzionale portando le persone a credere di vivere in un mondo che in realtà non esiste ed a comportarsi di conseguenza, ad avere aspettative non realistiche e ad accampare pretese irrazionali.