L'attacco missilistico dell'Iran contro la base aerea americana di Al Udeid in Qatar ha subito fatto scattare l'allarme: un'escalation militare che sembrava pronta a infiammare l'intero Medio Oriente e a travolgere anche gli stati del Golfo, finora più defilati ma potenzialmente nel mirino di una spirale fuori controllo.
Il Qatar, comprensibilmente, è infuriato. Ha bollato l'attacco come una "flagrante violazione della sovranità nazionale", una presa di posizione netta che riflette non solo il timore per la propria sicurezza, ma anche una certa frustrazione verso un gioco strategico in cui Doha si ritrova, suo malgrado, pedina sacrificabile.
Il paradosso è che il Qatar, con l'Iran, ha sempre mantenuto rapporti tutto sommato buoni. Condivide con Teheran uno dei giacimenti di gas più grandi del mondo, e si è espresso pubblicamente contro l'attacco israeliano che ha innescato questa sequenza di eventi. Non è quindi solo la violazione in sé a indignare i qatarioti, ma anche la sensazione di essere stati ignorati, messi da parte da un Iran che, pur mantenendo il proprio impegno retorico di vendetta, ha scelto un bersaglio che mandasse un segnale, senza però provocare uno scontro totale.
E probabilmente anche per questo è stato scelto il Qatar.
Infatti, a seguito dell'attacco contro una base già evacuata da almeno una settimana, non si registrano né vittime né danni, e secondo fonti regionali l'attacco è stato anche preannunciato sia al Qatar che agli Stati Uniti, in modo simile alla rappresaglia del 2020 per l'uccisione di Qasem Soleimani. Sei i missili lanciati, con danni puramente simbolici. Una "risposta dimostrativa", per consentire all'Iran di salvare la faccia in patria, rispettare l'impegno di vendetta e, al tempo stesso, evitare la reazione che un attacco su larga scala avrebbe inevitabilmente scatenato da parte americana.
In sostanza, Teheran ha calibrato l'offensiva perché questa fosse un messaggio, non una dichiarazione di guerra. Ma ora la palla è nel campo degli Stati Uniti – o, più precisamente, in quello di Donald Trump, sempre più uomo solo al comando della politica estera americana.
Il suo primo commento, pubblicato su Truth Social, non è stato una dichiarazione ufficiale sull'attacco, bensì il solito attacco alla stampa: "I siti che abbiamo colpito in Iran sono stati completamente distrutti e tutti lo sanno", ha scritto, riferendosi ai raid statunitensi contro gli impianti nucleari iraniani effettuati nel fine settimana. Ma la realtà potrebbe essere meno spettacolare di quanto Trump voglia far credere. Alcune strutture iraniane, come il sito nucleare di Fardow, sono così profondamente sotterranee che nemmeno le bombe americane, né le immagini satellitari, riescono a valutarne con certezza i danni. Molti analisti, infatti, restano cauti e parlano di un bilancio ancora prematuro.
Per quanto riguarda la reazione alla risposta iraniana, ilnodo è tutto politico. Se Trump sceglierà la linea dura, quella di oggi potrebbe essere stata solo la prima scossa di una lunga estate rovente nel Golfo Persico. Se invece opterà per chiudere qui la partita, evitando un'escalation, c'è anche chi intravede – forse troppo ottimisticamente – uno spiraglio per rilanciare i negoziati nucleari.
Ma con un equilibrio tanto instabile e leadership così imprevedibili in campo, non è il momento di farsi illusioni. La situazione resta tesa, e il confine tra dimostrazione di forza e guerra aperta è oggi più sottile che mai. Inoltre, sul piano pratico, l'Iran potrebbe avere molte più soddisfazioni contro gli Stati Uniti e i Paesi che li supportano, uscendo dall'AIEA e chiudendo lo stretto di Hormuz.