La parola terrorismo, in Italia, in una certa fase, era divenuta sinonimo di falangi armate, che si battevano sulle ali politicamente estreme, ovviamente in spregio alle formazioni parlamentari di teorica affine tendenza. Nel tempo sono emerse interpretazioni che è poco definire complesse, alludendo a infiltrazioni della criminalità organizzata, incroci con bande estere, la Cia ci spia e l’inevitabile banda della Magliana.

E’ appena il caso di ricordare che, a seconda del momento storico, quello che in seguito è stato descritto come eroe, all’epoca era considerato un terrorista: esempio lampante è il cosiddetto patriota risorgimentale. Altrove, per esempio in Sudafrica, Stephen Biko fu avversato e ucciso come tale, nel 1977; la polizia ne dichiarò la morte per sciopero della fame.

Nell’Italia postunitaria fu la volta degli anarchici, poi degli antifascisti. Nel dopoguerra arrivò una calma apparente:  ci veniva detto che l’intelligence, in una col formidabile patto atlantico, ci avrebbe protetto da rischi di insurrezionalismo e attentati. In realtà queste architetture mondiali tutelavano più che altro i leader, lasciando aperte falle quando essi davano un particolare fastidio, come nel caso di JFK; in ogni caso, ciò valeva per il mondo occidentale, il resto del pianeta rimanendo ancorato a visioni paternaliste, benevolenti, in sostanza pressoché inesistenti per i paesi del primo mondo.

Vogliamo cogliere l’occasione per ricordare la figura di Olof Palme, eminente politico socialdemocratico  svedese di caratura internazionale, freddato mentre tornava dal cinema con la moglie, nella sua Stoccolma, il primo marzo 1986, a 59 anni. L’inchiesta si è conclusa, udite udite, nel 2020, identificando un assassino morto da vent’anni.

All’inizio si batté la pista terroristica, che si impantanò ben presto, poiché il defunto, con le sue vedute da “impolitico impegnato”, ovvero dotato di indipendenza di pensiero, aveva dato noia un po’ a tutti, da sinistra a destra, da nord a sud del mondo – il Sudafrica dell’apartheid era nel mirino. Leggere le cronache investigative su questo caso, se non fosse una tragedia, provocherebbe ilarità: si va dai russi agli americani, dai turchi ai servizi italiani, al semplice tossicodipendente in scimmia.

Non fiumi, ma oceani di parole sono stati spesi per narrare delle figure, esecrate ma talora leggendarie, di molti terroristi. Se è vero il detto “ sic transit gloria mundi”, è pur certo il contrario, poiché passa e va anche la mala fama: e da sicari obbrobriosi si muta in “testimoni della storia”.

Navigavamo smarriti alla facoltà di lettere di Genova, tra un’occupazione proletaria e l’altra, statue divelte, scritte ingiuriose e rivoluzionarie, corsi abortiti, ragazze barricadere con i calzini arrotolati sulle caviglie che ci intimavano l’ alt.  “ oggi non c’è lezione”,  e tu tornavi a casa esasperato. Non che ti piacessero gli avversari degli occupanti, non ti piaceva nulla, anzi: nel nostro caso, maledicevamo noi stessi, per non aver abbastanza acume da frequentare le facoltà scientifiche, dove regnava una certa calma apparente e qualcosa si poteva ancora fare, per accontentare i genitori in attesa del lauro dottorale.

Genova è stata una delle città più colpite dal fenomeno Brigate Rosse. Il 26 marzo del ‘71 due uomini in scooter aggredirono un portavalori dell’Istituto Autonomo della Case Popolari, Alessandro Floris: gli scipparono la borsa con gli stipendi, dandosi alla fuga. Floris li inseguì e nel parapiglia venne ucciso a colpi di pistola dal passeggero della Lambretta, “Mariolino” Rossi. L’agguato fu per caso immortalato da un giovane alla finestra. Le indagini portarono ai soldi del riscatto per il rapimento di Sergio Gadolla, figlio di maggiorenti genovesi, somma che serviva a finanziare la lotta armata. 

Il PM incaricato delle indagini era Mario Sossi. Il magistrato (1932/2019), schierato politicamente a destra, fu rapito dai brigatisti nel 1974. La liberazione di alcuni ”colleghi” bierre, richiesta in cambio della sua vita, non fu accettata dal giudice Francesco Coco, ma Sossi fu egualmente rilasciato dai rapitori, capitanati da Alberto Franceschini. Questi, oggi 73 anni, intervistato molti anni dopo nell’ambito di un programma su Rai Storia, è apparso rilassato e sorridente, alle spalle la solita catasta di libri, mentre diffidava dalle imitazioni, confermando la fine del brand di loro esclusiva pertinenza ( lui e i suoi sodali, s’intende, dunque rinnegando Nadia Lioce and co). Quanto al giudice, irritato per la scarsa solidarietà della sua categoria, si buttò infine su Forza Nuova. Lo ricordiamo aggirarsi per i corridoi del nostro ufficio, corrusco, scostante, certamente traumatizzato anche diverso  tempo dopo l’accaduto.

Francesco Coco, colpevole dunque di non aver concesso la libertà ai detenuti terroristi, fu “giustiziato” l’8 giugno 1976, sotto casa sua, la suggestiva salita di Santa Brigida, una larga “creuza” traversa di Via Balbi, sede delle facoltà umanistiche e del polo giurisprudenza/economia; lo seguirono nell’infausta sorte gli agenti di scorta Saponara e Deiana.

Mentre “Balbi 6”, sede rettorale, veniva lasciata in relativa tranquillità, “Balbi 4”, dove si trovava “il resto” della facoltà di lettere, era un teatro di battaglia. Frequentare non era più possibile, a parte le lezioni del mitico professor Edoardo Sanguineti (1930/2010), esponente di spicco della corrente letteraria “Gruppo ‘63”: in teoria docente di letteratura italiana, in pratica filosofo teoretico che ammanniva più opere francesi  che italiche e rifilava, quali testi di studio, le opere dei suoi compagni di congrega, primo fra tutti Alberto Arbasino. Si poteva rimediare un’emicrania, ascoltando il cerebrale lessico dell’intellettuale di punta, accerchiato da registratori accesi dai discenti in adorazione e spesso applaudito. Di una coerenza rayonnant, Edoardo abitava in un quartiere ultrapopolare. Da lui imparammo ad usare l’aggettivo “paradigmatico”.

Provammo dunque a entrare alla facoltà di filosofia, ma rinculammo alla svelta. Vagolavano per scaffali, fingendosi studenti, più poliziotti che allievi: futuri quasi colleghi, ma non lo sapevamo ancora.

Ed eccoci di ritorno a Balbi 4, percorrendo i corridoi rasenti al muro, schiaffeggiati dai murales cubitali, in testa la scritta marcusiana “Immaginazione al potere”. Vabbè. Ogni tanto veniva arrestato qualcuno che conoscevamo di vista o che persone della nostra cerchia conoscevano: il docente di storia dei partiti politici; il titolare di una delle prestigiose cattedre di letteratura italiana, Enrico Fenzi; Francesco Lo Bianco, prima operaio poi impiegato all’Ansaldo, lunga detenzione e un numero infinito di lauree; l’attore A.R., pizzicato mentre recitava “Casa di bambole”, quasi tirato giù dal palco, e non da un'ovazione.

Chi ne ha incrociato qualcuno sa che si trattava di persone che non abbassavano lo sguardo, a volte cordiali: ti guardavano e sorridevano.

A quel punto, desideravamo solo sbrigarci e agguantare il pezzo di carta. Liquidammo la coda del cursus con un disonorevole passaggio in “Storia delle esplorazioni geografiche”, esamificio con la coda di laureandi che manco una catena di montaggio. Un annoiato Francesco Surdich,  schiatta di eminenti accademici, poi preside di facoltà,  ebbe l’ardire di chiederci se sapessimo dove fossero le ex colonie italiane: alla nostra risposta sicura, replicò che molti lo ignoravano, tale era la levatura media degli aspiranti dottori.

Nel frattempo la penisola era attraversata da moti sanguinosi che sembravano sepolti negli annali storiografici: e Genova continuò a pagare il suo tributo.

Il commissario  Antonio Esposito prendeva l’autobus, linea 15, per andare a lavoro, nel piccolo distretto di polizia  Genova Nervi, immerso nel verde. Non si creda a un tranquillo impiego di tutto relax, il funzionario avendo alle spalle spesse attività di indagini in materia specifica. Il 21 giugno 1978, alla fermata di via Pisa, nell’elegante quartiere di Albaro, un commando salì a bordo e lo bersagliò di proiettili, nello specchio delle porte aperte per i passeggeri, benché seduto in fondo: una dinamica, in verità, abbastanza curiosa, se si considera la possibilità che il mezzo nemmen si fermasse (circostanza frequente, allora, che non ci fosse nessuno in attesa o in discesa) e il rischio di colpire “civili” .

24 ottobre 1979. L’operaio dell’Italsider e sindacalista FIOM  Guido Rossa, un ardimentoso che aveva scalato in Nepal,  reo di aver denunciato un collega fiancheggiatore delle Bierre, venne assassinato nella sua auto, in un semideserto vialone dei “bricchi” .

21 novembre 1979. Ci spostiamo a Sampierdarena, prima delegazione della periferia ponentina della città, in via Monti, una delle tante rampe che portano in collina: i carabinieri Vittorio Battaglini e Mario Tosa, in servizio di pattuglia, stavano bevendo un caffè al bar,  quando vennero crivellati dal solito gruppetto lesto a fuggire tra gli astanti attoniti.

25 gennaio 1980, di nuovo nella lussureggiante cornice di Albaro, la stretta e poco frequentata via Riboli: il tenente colonnello Emanuele Tuttobene e il suo autista Antonino Casu persero la vita durante l’ennesimo raid brigatista.

Il 28 marzo 1980, durante una controffensiva delle istituzioni, l’Arma sotto l’egida di Carlo Alberto Dalla Chiesa fece irruzione nel covo di via Fracchia, vicinissimo all’abitazione di Rossa: uccisi tre militanti e la proprietaria dell’appartamento, un carabiniere ferito.

Tra le vittime vogliamo ricordare anche il carabiniere genovese d’adozione Felice Maritano, ucciso in uno scontro a fuoco nel milanese, cui è intitolata una via di Genova Rivarolo, dove egli abitava.

Il 28 marzo 1980 Barbara Balzerani, ex brigatista ancella di Renato Curcio, poi ovviamente scrittrice (la colleganza ci dispiace) ha postato una commemorazione per i quarant’anni da via Fani, pare ricevendo un certo apprezzamento.

Tra le forze dell’ordine, gli incaricati delle delicate operazioni dovevano possedere una tempra da veri duri. Eravamo in soggezione quando ne incrociammo uno, membro della squadra NOCS, che aveva partecipato all’azione di release del generale americano James Lee Dozier, oggi ottantanovenne. Il militare NATO fu rapito a Verona nel 1981 e liberato con un’incursione in un covo di Padova, il 28 gennaio del 1982.

Come dimenticare, poi, Caterina Picasso, classe 1907, soprannominata " la vecchina bierre?". Dopo un'esistenza in solitudine, vedova di un coniuge malato che aveva dovuto assistere, niente figli, ne trovò forse uno in Riccardo Dura, genovese anch'egli d'adozione, considerato uno dei più implacabili falangisti rossi ( morirà in via Fracchia). La casa della donna, in via Zella, a Genova Rivarolo, era adiacente all'autostrada, di talché ci dicono che i suoi  "figlioli adottivi" si appoggiassero a tale dimora e poi zompassero su qualche auto in transito,  in pratica sul vecchio viadotto Polcevera, quello caduto il 14 agosto 2018. Conserviamo l'immagine di questa sfortunata donna  che gira allegrotta per i corridoi istituzionali, in kilt e stivali: sembrava aver trovato il senso di una vita altrimenti vissuta nello sconforto.

C’eravamo dentro tutti, in qualche modo e vogliamo ricordare, nostro malgrado, delle sgradevoli reazioni, in occasione dell’assalto a via Fani, allorché ascoltammo troppe persone manifestare dispiacere per la scorta, ma nessun rammarico per la sorte di Aldo Moro: un odio per la politica che gli italiani spesso dimenticano, presentandosi sempre alle urne nemmen cauti, ma sempre festanti per il nuovo pifferaio. E gli ex bardi della nuova era, gli ideologi della paura o i combattenti di una guerra non mai dichiarata, ma strisciante, dove sono finiti? A cercarli, emergerebbero parecchie sorprese.

Si registra un rigurgito di violenza, quasi uno uno spasmo da terminator, il 7 maggio 2012: un ingegnere in servizio all'Ansaldo Nucleare venne gambizzato in via Montello, quartiere a metà tra Genova Marassi e Castelletto. Si parlò subito di "tecnica brigatista", ne seguì la condanna di due individui dell'area "anarchico insurrezionalista": formazione che, in verità, seminava da anni volantini in giro e teneva regolari sedute proprio nei pressi del luogo dell'aggressione.

E allora, vi proponiamo il nostro romanzo “Nessuno si fa fuori a Bordighera”, Eidon Edizioni, collana Acqua,  ISBN: 978-88-95677-08-8, prenotabile a richiesta sulla nostra pagina Facebook .https://www.facebook.com/Carmen-Gueye-102422911511852/

Come nasce una simpatia per l’eversione? Che succede nella maturità, soprattutto all’incontro con gli altri, quelli odiati, quelli che si diceva di voler emancipare, e altri ancora, che hanno conosciuto la vera durezza della vita e non le sofisticate rivolte borghesi? Vi aspettiamo idealmente nella perla della riviera dei fiori.