Quello che la maggioranza di Governo non vuol vedere o fa finta di non vedere è stato illustrato in un articolo pubblicato sul sito di Rassegna Sindacale, periodico sindacale italiano fondato nel 1955.

Il problema è molto semplice e riassumibile in questi termini. L'Italia è fuori dalla crisi. Lo dimostra il Pil, lo dicono gli organi di controllo nazionali e internazionali, lo dimostrano gli occupati, che hanno raggiunto il livello di 23 milioni, analogo a quello del 2008 e prossimo al massimo storico dal 1992.

Però, questi dati non coincidono con la percezione da parte degli italiani, la maggioranza, di un ritrovato benessere. Il perché di ciò, come viene spiegato nell'articolo, dipende dal fatto che gli attuali dati macroeconomici, sebbene positivi, nascondo però degli elementi critici che non dovrebbero, come invece avviene, essere sottovalutati.

Quali sono queste criticità. Eccone alcune: "la riduzione di quasi il 25% della capacità produttiva tra il 2008 e il 2013; i livelli di salari, la produttività del lavoro, gli investimenti in capitale e in ricerca e sviluppo, significativamente inferiori alla media europea."

A ciò si deve aggiungere che le ore lavorate restano lontane dai livelli pre-crisi e ciò può esser spiegabile solo con il fatto che manchi "la possibilità di sfruttare appieno la capacità produttiva e che vi sia la tendenza, con l’esaurirsi degli incentivi all’occupazione stabile nel biennio 2015-2016, a creare occupazione di scarsa qualità", come confermano la "stagnazione dei salari" – in contrasto con quanto avviene in media nell’eurozona – e la recente "espansione del lavoro temporaneo a discapito di quello permanente".

Nei giorni scorsi, la propaganda del Partito Democratico, acriticamente supportata dalla stampa nazionale, ha sbandierato come un successo che l’occupazione in Italia, ad oggi, è tornata ai livelli pre-crisi del 2008. Però a questo dato va sovrapposto anche quello che ci ricorda che nel secondo trimestre del 2017 il Pil è inferiore del 6,4% rispetto a quello pre-crisi del 2008, così lcome il totale delle ore lavorate nel secondo trimestre 2017 è inferiore del 5,8%.

La conseguenza di tale situazione è un disallineamento tra occupazione e ore lavorate che ci dice quanto sia fragile l’economia italiana. "Nel 2016, ciascun occupato ha lavorato mediamente due ore settimanali in meno rispetto al 2008, con una perdita di capacità produttiva del 4,9%." Questa mancanza di corrispondenza tra ore lavorate e occupazione può spiegarsi logicamente con il "consolidarsi di un’occupazione di scarsa qualità non adeguata a supportare una crescita di carattere strutturale." La crescita del lavoro è il realtà la crescita del lavoro precario, oltretutto mal retribuito.

L'altro aspetto da tenere in considerazione sono appunto le retribuzioni che, "per occupato e per ora lavorata si caratterizzano, nella fase di ripresa, per una dinamica debole, con una crescita marcatamente inferiore ai livelli pre-crisi e, dal 2011, sistematicamente inferiore all’1%."

Ciò dipende non dal fatto che il numero di ore lavorate sia inferiore, quanto dal fatto che vengano retribuite poco. "Ciò induce a pensare che l’economia italiana sia afflitta da una duplice patologia strutturale: da un canto, la debole crescita delle ore lavorate, dovuta all’incapacità di sfruttare appieno la capacità produttiva; dall’altro, una dinamica distributiva che impedisce ai salari di crescere, beneficiando della ripresa dell’occupazione. Entrambi questi elementi potrebbero contribuire a un indebolimento della domanda aggregata, con ripercussioni negative sulla crescita sia nel breve che nel medio-lungo periodo." Insomma, un gatto che si morde la coda.

In attesa di conoscere quale sia stato l'impatto degli incentivi nella riforma del lavoro ideata da Renzi, dal 2018 inizieranno a scadere i tre anni dopo i quali un lavoratore assunto come permanente deve essere confermato come indeterminato oppure licenziato, un altro aspetto ci dimostra però già adesso i problemi che caratterizzano il mondo del lavoro: la produttività.

"Dal 2015, la produttività cala sensibilmente, con ulteriore accentuazione nel 2016. Tale effetto è in parte dovuto ai più volte ricordati incentivi, che sembrano aver spinto le imprese ad assumere nuovo personale, invece che ad aumentare l’orario medio di lavoro dopo la diminuzione negli anni di crisi.

L’occupazione e il monte ore lavorate hanno seguito dinamiche molto simili: nel periodo 2014-2016 i loro tassi di variazione sono stati del 2,5% e del 2,7%, rispettivamente, confermando che l’aumento dell’occupazione non è coinciso con un recupero della capacità produttiva persa nella fase recessiva.

Significativa è anche la divergenza registrata, a partire dal 2012, tra la produttività del lavoro espressa in valore aggiunto per ora lavorata e per occupato. Negli anni 2015 e 2016 il valore aggiunto è aumentato a un ritmo inferiore rispetto a quello dell’occupazione, contribuendo alla riduzione dei livelli di produttività. A tutto questo c’è da aggiungere che, nella fase di uscita dal periodo recessivo, il divario tra produttività per ora lavorata e per occupato non è stato recuperato; anzi, entrambe le misure subiscono (dal 2015) un’ulteriore flessione."

L’Italia, poi, deve anche confrontarsi con i propri concorrenti, Germania e Francia in testa, con cui si fanno più evidenti e gravi i problemi legati ai bassi livelli di competitività. "Questo dato sembra confermare che è in atto un processo di indebolimento competitivo dell’economia italiana da ascriversi principalmente alla scarsa propensione delle imprese a investire in capitale fisico e in innovazione e a preferire strategie competitive basate sulla riduzione dei costi e sull’utilizzo del lavoro flessibile."