Correre, da sempre, è sinonimo di fatica. Correre non è un atto; è un ritmo ripetuto costantemente, dove il tempo scavalca la dimensione del quotidiano e si adegua al respiro generato dallo sforzo. Correre è un modo di comunicare in maniera umana ciò che, a volte, non ha nulla di umano.

Nella profonda Africa, in Kenya, l’ equatore traccia un confine dal quale si estende per 6000 km la Rift Valley. La Rift Valley ha una storia antica, iniziata circa 35 milioni di anni fa, quando fu generata dalla separazione, da un lato, delle placche tettoniche africana e araba e, dall’ altro, dell’ Africa dell’ est dal resto dell’ Africa. Nella parte più meridionale del Mar Rosso la Rift Valley si dirama in due direzioni: verso est, dove c’è l’ Etiopia; e verso sud, dove c’è il kenya. Sui confini di questa diramazione si sviluppa la culla dei corridori più forti di tutto il Pianeta.

Non è un caso, infatti, che i più forti corridori, nelle discipline comprese fra gli 800 metri e i 42 chilometri, provengano tutti da questo altopiano. La Rift Valley presenta un ambiente arido, spoglio, tristemente caldo e vertiginosamente frastagliato; La flora e la fauna che si trovano nell’ altopiano africano sono resistenti per definizione: si sono adattate alle condizioni dettate dall’ ambiente nel quale si sono sviluppati. Nella Rift Valley vive un popolo keniota, del gruppo nilotico, chiamato Kalenjin. In verità il popolo è composto da una miriade di etnie, anche se viene seguita una linea politica che tende ad unificarle in modo da poter parlare di popolo, per un verso, e per dare voce anche alle minoranze, per un altro. Questa sembra essere la linea politica ufficiale. Ma dietro un obiettivo che ha la parvenza di un oggetto prezioso, si scorge il dramma dell’ ipocrisia, che si insinua impedendo che qualche etnia possa recare problemi indesiderati, e si realizza nello sfruttamento economico delle risorse offerte dai distretti abitati dai kalenjin.

Il popolo Kalenjin è famoso per due particolarità: da un lato,perché sforna alcuni tra gli atleti più promettenti nell’ atletica leggera. Serve solo evidenziare un dato per comprenderne la portata: dalle Olimpiadi di Seul del 1988 fino alle Olimpiadi di Londra del 2012 il Kenya ha vinto 48 medaglie su 126 totali nelle gare maschili dagli 800 metri in su, e la gran parte di questi kenioti vincenti sono di etnia kalenjin. Dall’ altro, è un popolo che custodisce la cultura del dolore.

All’ età di 15 anni, infatti, ragazzi e ragazze devono subire un rito di iniziazione che garantisce loro il passaggio all’ età adulta. Il rito prevede che vengano spogliati nudi e costretti a strisciare in un tunnel di ortiche particolarmente urticanti. Mentre strisciano, alcuni “addetti” hanno il ruolo di percuotere gli iniziati sulle ossa sporgenti dalle anche per mezzo di alcuni bastoni. Dopo aver serpeggiato tra le ortiche, l’ acido formico ricavato dalle stesse piante viene spalmato sui genitali delle ragazze e dei ragazzi. Durante il compimento del cruento rito, viene spalmato del fango sulla faccia degli iniziati che viene lasciato essiccare per un po’; quindi gli addetti si apprestano a circoncidere i maschi e a provvedere alla mutilazione degli organi genitali femminili ( anche se, bisogna specificarlo, negli ultimi tempi questa pratica brutale è andata riducendosi). Se durante l’ operazione il fango dovesse creparsi per una smorfia di dolore, gli iniziati diventano, per così dire, “finiti”: vengono emarginati dalla società, diventando kebitet, cioè codardi. Se superano la prova, invece, entrano nell’ età adulta godendo del rispetto e della considerazione degli altri che hanno già dovuto affrontare il rito in questione. La cultura del dolore forgia le gambe, i piedi, e lo spirito di questi giovani. Il dolore viene conosciuto nella sua origine, duramente e prematuramente. Se si conosce il dolore, di conseguenza si alza anche la soglia di tolleranza della fatica, e correre per 42 chilometri, a questo punto, può diventare abbastanza semplice. Se a questo si aggiunge che i kalenjin corrono a circa 5000 metri d’ altezza sul livello del mare sviluppando una maggiore resistenza aerobica, che permette di ampliare la propria capacità polmonare, significa che una competizione svolta su un percorso con condizioni ottimali per ogni atleta, per loro si traduce in un vantaggio irrecuperabile per gli avversari. Forse è questo uno dei motivi per cui qualche esponente dei Kalenjin è riuscito a concludere una maratona in poco più di due ore, regalando la speranza di poterla concludere anche registrando un tempo inferiore.

Elly kipgogei è un atleta keniano proveniente dal popolo kalenjin. Quando parla ha il volto scavato, le rughe attorno agli occhi che vorrebbero sussurrare una storia triste, un sorriso che purifica l’ animo arido come la Rift Valley. Racconta che dopo essere stato circonciso, era stato portato in una capanna appena fuori dal suo villaggio. Gli era stato detto di correre. “Piangevo dal dolore, non credevo di potercela fare. Ma mi sono detto: prova”. La familiarità con il dolore è il dolore stesso che diventa, a sua volta, una sensazione normale. Respirare e provare dolore si uniscono e vanno insieme, inseparabili.  “Il dolore ti aiuta a perseverare. Più ti fa male, più vuoi provare”. Kipgogei ha un figlio. Ha dichiarato che, nonostante la cultura kalenjin cui appartiene, non farà circoncidere il figlio perché pensa esistano modi diversi per imparare a perseverare resistendo al dolore dimostrando così che il buon senso è un’ arma potente che può rivelarsi superiore ad ogni cultura. Il dolore è una componente essenziale di questo popolo curioso e straordinario; è un pò lo specchio dell’ Africa, che nelle sue contraddizioni e nelle sue innumerevoli difficoltà, può raggiungere l’orizzonte della speranza solo in un modo, nell’ unico che conosce: correndo.