Spesso rimaniamo inorriditi dalle condizioni in cui sono tenuti i rifugiati nei centri di accoglienza italiani ed europei in generale. In realtà, quanto accade in Australia supera i limiti dell'umana immaginazione.

A rivelarcelo è il documentario Chasing Asylum, realizzato dall'australiana Eva Orner, che ha ripreso segretamente gli occupanti dei centri di detenzione australiani di Nauru e di Manus Island. Si tratta di due centri "offshore", dato che non si trovano in territorio australiano. Nauru, o Repubblica di Nauru, è uno stato indipendente, poco più grande del Vaticano e del Principato di Monaco, che ha accettato di ospitare il centro di detenzione, in cambio di aiuti dal governo di Canberra. Manus Island fa parte di Papua Nuova Guinea.

I due centri furono creati nel 2001 dal governo presieduto dal primo ministro John Howard, nel contesto di quella che fu definita la "Pacific Solution", per ospitare rifugiati in arrivo via mare. Il tutto avvenne a seguito della crisi verificatasi quando la nave norvegese Tampa prese a bordo 433 richiedenti asilo afgani in fuga dai Talebani, che cercavano di raggiungere Christmas Island a bordo di un piccolo peschereccio indonesiano. Il governo utilizzò l'esercito per impedire al capitano norvegese di sbarcare i rifugiati, ormai in pessime condizioni di salute, sull'isola.

Entrambi i centri furono chiusi dopo alcuni anni per poi essere nuovamente riaperti. Quello di Nauru fu chiuso nel 2008 e riaperto nel 2012, quello Manus Island fu chiuso nel 2004 e riaperto nel 2013.

La politica dell'Australia nei confronti dei migranti si è fatta ancora più dura sotto il governo di Tony Abbott, con la cosiddetta Operation Sovereign Borders, in base alla quale ad ogni rifugiato in arrivo via mare viene sistematicamente rifiutato l'asilo e viene spedito nei centri di detenzione. Il governo sostiene che questa misura ha un effetto deterrente e impedisce che molti affrontino una pericolosa traversata nelle mani di trafficanti di esseri umani, a rischio della vita. Sono in molti a dubitarne.

Chasing Asylum mostra la vita quotidiana di tutti coloro che vivono nei centri: i rifugiati, gli operatori che li assistono e il personale di sicurezza.

Gli operatori non sono persone qualificate e molti di loro hanno semplicemente risposto ad annunci pubblicati su Facebook, che presentavano il lavoro a Nauru o Manus Island quasi come una sorta di vacanza. Lo racconta uno dei pochi che hanno accettato di essere intervistati, descrivendo anche lo shock provato all'arrivo nel centro, quando ha dovuto gestire situazioni estreme, con rifugiati che si autoinfliggevano ferite o cercavano di suicidarsi.

Una delle prime indicazioni fornite agli operatori è come usare il coltello per tagliare le corde di coloro che si impiccano.

La gravità della situazione nei centri di detenzione di Nauru e Manus Island è riportata anche in un'intervista rilasciata al Guardian da Paul Stevenson, psicologo e traumatologo con una lunga esperienza nel trattamento di persone vittime di disastri naturali e attacchi terroristici.

Nel periodo in cui Stevenson ha soggiornato nei due centri è stato testimone di episodi orribili. Sei bambini senza genitori hanno tentato tutti di uccidersi, scambiandosi un rasoio l'un l'altro. Una donna ha minacciato di uccidere la figlia e ha tentato di togliersi la vita per ben sette volte in cinque settimane. Un rifugiato si è ferito all'addome in segno di protesta, quando non gli è stato consentito di parlare con il cugino che minacciava di gettarsi dal tetto di un edificio.