Un giocatore che senza dubbio ha consacrato la sua definitiva ascesa durante i Playoffs NBA 2016 è il centro degli Oklahoma City Thunder, Steven Adams. Le qualità tecniche del giocatore, infatti, sono notevolmente migliorate: risultato raggiunto grazie anche a sfiancanti allenamenti, accompagnati da costanza e determinazione; sotto il pitturato si muove con una velocità disarmante, e la padronanza del piede perno può essere già ascritta negli annali del Gioco. Classe 1993, Adams ha prospettive di miglioramento che non possono, e non devono essere trascurate. Ciò che però ha significativamente inciso, assieme alla consacrazione delle qualità tecniche del pivot, è il bagaglio culturale e spirituale che Adams ha portato con sé dal suo Paese natìo, la Nuova Zelanda.

            Steven Adams proviene dal distretto di Rotorua, autorità territoriale della Nuova Zelanda collocata entro i confini delle regioni di Waikato e Bay of Plenty, nell’ isola del Nord. Rotorua è la città principale del distretto con una popolazione di 53.000 abitanti, di cui oltre il 30% di etnia Maori. “ La città dalla quale provengo è piena di geyser che eruttano molto spesso; praticamente è pervasa da un odore di zolfo: sembra che qualcuno ti scoreggi costantemente in faccia”. Queste le testuali parole per descrivere il particolare olezzo che permea, da un lato, e caratterizza, dall’ altro, la verde cittadina della Nuova Zelanda. In questa dichiarazione c’è tutta la genuinità di un giocatore, e ancora prima di una persona , che parla nel modo in cui vede le cose con gli occhi , e nel modo in cui percepisce le sensazioni col corpo. Non c’è mai malizia. C’è, piuttosto, naturalezza e spontaneità: come quando ha definito i giocatori dei Golden State Warriors, reduci di una clamorosa rimonta nella serie proprio contro i Thunder, successivamente alla vittoria ad Oakland in gara 1, nient’ altro che “delle piccole scimmie molto veloci”. Dopo questa dichiarazione è stato costretto a scusarsi perché, si sa, in una Lega professionistica con un’ incredibile risonanza mediatica come l’ NBA, è questione di centimetri sbilanciarsi e cadere nel lato negativo di qualsiasi dichiarazione, gesto o comportamento che in origine, di negativo, non avrebbe nulla. Provocazioni e contro-provocazioni sono all’ ordine del giorno (soprattutto nel periodo dei Playoffs) con la conseguenza che le conferenze stampa si infiammano, gli animi dei giocatori si accendono, e il calderone della post-season diventa ogni giorno più rovente, contribuendo a rendere ancora più unico questo periodo dell’ anno, probabilmente considerato il migliore dagli appassionati della Pallacanestro.

Steven Adams è uno che ha l’ orizzonte negli occhi. Lui guarda oltre le cose, vede il senso delle sue parole in una dimensione diversa e lontana da quella degli occidentali. Lui è un Maori, e il tatuaggio che porta sul braccio è la testimonianza più vera. I tatuaggi raccontano, per alcuni in misura maggiore , per altri in misura minore, la propria storia personale: gli eventi , le sfortune e le fortune che hanno caratterizzato la vita del corpo sul quale sono disegnati. Anche per il popolo Maori i tatuaggi realizzano il medesimo obiettivo, ma con sfumature di grigio che è doveroso specificare. Il popolo Maori, infatti, si riconosce come cultura e come gruppo unito; i tatuaggi, allora, assumono un preciso significato che canonizza, da un lato, la spiritualità di ciò che è rimasto di un’ etnia meravigliosa, e che crea, dall’ altro, una robusta identità che consente loro di affermarsi e di rimanere saldi ai loro atavici principi in un mondo destinato ad evolversi, nel bene e nel male.  I guerrieri Maori, dipingendosi il volto, raccontano la propria storia personale; le donne, invece, tracciandosi un segno riconoscibile sul mento, evidenziano il loro legame a un guerriero maori. Il tatuaggio tribale che Adams porta sul braccio valorizza il significato della famiglia , della forza e della protezione: tre elementi che sono il manifesto principale della cultura che ha partorito il Neo-Zelandese nonché, con tutta probabilità, la bussola che potrà utilizzare per trovare il nord nei momenti di difficoltà e di disorientamento.  

Steven Adams non aveva minimamente progettato di varcare i confini della Lega professionistica di pallacanestro più famosa al mondo. Ultimo di diciotto figli avuti con cinque donne diverse, il figlio del prestante ed irriducibile Sid Adams era costantemente vessato dai fratelli e dalle sorelle più grandi: l’ unica arma che aveva a sua disposizione era il pianto, che puntualmente richiamava l’ instancabile Sid per rimettere ordine negli amorevoli screzi familiari. Quando la mamma ( una delle cinque donne con cui era stato Sid) moriva per una malattia, come spesso accade, il centro dei Thunder avevo perso la bussola e aveva iniziato a frequentare una gang locale di Rotorua. Per salvarlo da una strada che sicuramente avrebbe portato il ragazzone a cacciarsi in guai più seri di quelli in cui è effettivamente capitato, uno dei diciotto fratelli l’ aveva spinto ad intraprendere la strada della pallacanestro, considerando anche che il giovane Steven cresceva a dismisura. Adams è uno che non fa domande: lotta se c’è da lottare, esegue se c’è da eseguire, in pieno spirito maori. Ha provato a giocare , non perché  lo volesse davvero, ma perché in quel momento era l’ unica alternativa prospettabile alla vita da teppista. Ha raccontato in un’ intervista rilasciata a ESPN che un suo vecchio allenatore, per spronare le sue qualità atletiche, gli aveva promesso un nuovo paio di scarpe se fosse riuscito a schiacciare la palla nel canestro durante una partita. Il centro dei Thunder si era impegnato con tutte le sue forze , fallendo molte volte , fin quando, durante una partita, si era elevato sopra il parquet spingendo la palla nel cesto con la retina. Steven ha raccontato che era contento di aver raggiunto quel risultato, ma a quel punto le scarpe promesse non gli interessavano più. Aveva fatto quello che doveva fare, il resto era diventato superfluo. E’ nell’ onore dei maori: fai quel che devi , devoto allo spirito, e non pensare ad altro.

Quando è approdato nella NBA ha assaggiato il sapore del dolore, visti gli innumerevoli scontri fisici con tantissimi veterani che hanno voluto inviare subito un messaggio al possente giovane di Rotorua: anche se sei alto 211 centimetri e pesi 115 kg, qui dentro non conti nulla. Ma ancora una volta sorprende l’ approccio calmo, quasi trascendentale, del giovane Neo-Zeandese; Scott Brooks, il suo precedente coach nell’ attuale Team per cui gioca, gli ha detto che non deve mai reagire alle provocazioni perché ne risentirebbe la squadra. “Quando mi colpiscono fa male” ha dichiarato il centro dei Thunder “ ma se reagisco, fa più male alla squadra. Io non reagisco. Io guardo oltre”. Il suo amico e compagno di squadra, Nick Collison, dice che Adams non è mai impressionato da niente, non prende mai le cose troppo sul serio; “get over yourself”, guarda oltre te stesso, è il retaggio di una cultura che viene da lontano; è l’ eco di un guerriero dall’ animo gentile che in fin dei conti è un ragazzo come tanti: ama collezionare perle e viaggiare per il mondo; è il mantra di un uomo di ferro, che usa il fuoco della rivalità per temprare lo spirito, per coltivare la pazienza, e per allenare la velocità, la stessa di cui si sono serviti i suoi antenati per cacciare i Moa, grandi uccelli ormai estinti, simili agli struzzi, che abitavano “la Terra dalle lunghe nuvole bianche”. C’ è un detto maori che recita: “ volta il viso verso il sole e le ombre cadranno dietro di te”. Quando guardi giocare Steven Adams, hai di fronte non solo un giocatore, ma anche un guerriero. E se lo guardi bene, noti che davanti a lui non ci sono ombre: perché lui ha il viso rivolto verso il sole, e le ombre gli cadono dietro.