La lunga contesa legale, che vedeva di fronte Google e Oracle per la presunta violazione del copyright su Java da parte del colosso di Mountain View, ha registrato la vittoria di quest'ultimo, quando giovedì scorso 10 giurati hanno sentenziato in suo favore. Non è detta, però, la parola definitiva, in quanto Oracle molto probabilmente ricorrerà in appello per far valere le sue ragioni e ottenere il risarcimento danni richiesto, di ben 9 miliardi di dollari.

La battaglia nei tribunali va avanti dal 2010 davanti a corti distrettuali e federali ed ha registrato sentenze contrastanti, che hanno visto prevalere ora l'una ora l'altra delle controparti. Ma qual è il vero oggetto della contesa e cosa c'è in gioco? Vediamo di fare un po' di chiarezza.

Quando Google decise di produrre Android, ritenne opportuno far sì che gli sviluppatori Java potessero riutilizzare il loro codice per creare le app destinate al nuovo sistema operativo. Ci furono delle trattative in proposito con Sun Microsystems, titolare al tempo dei diritti su Java e acquisita successivamente da Oracle, ma non fu mai raggiunto un accordo.

A quel punto, Google decise di fare da sola e realizzò una propria versione di Java. Nel far questo, allo scopo di assicurare la piena compatibilità, usò delle funzioni con lo stesso nome e le stesse funzionalità, in sostanza la stessa API (Application Programming Interface) della Sun.

Ma Oracle querelò Google, sostenendo che nomi e caratteristiche delle funzioni Java sono un'opera creativa e come tali tutelate da copyright. Gli avvocati di Google, però, si richiamarono ad una sentenza del 1995, che aveva dato ragione alla Borland accusata dalla Lotus di aver utilizzato nel suo nuovo foglio elettronico la stessa organizzazione dei menù di Lotus 123.

In quel caso, il tribunale ritenne che i menù non costituissero un'opera dell'ingegno, ma solo una caratteristica funzionale, e, quindi, non potessero essere soggetti a copyright. Inoltre, di una standardizzazione dell'interfaccia gli utenti non possono che beneficiare, non essendo così costretti ad imparare sempre nuovi comandi quando passano da un programma all'altro.

Questo argomento risultò vincente nel 2012 presso un tribunale distrettuale e il giudice William Alsup si pronunciò a favore di Google. Ma nel 2014 quella sentenza fu completamente ribaltata dalla Corte d'Appello federale, che sentenziò che una API è parte del codice e pertanto non può essere utilizzata senza l'autorizzazione di chi ne detiene il brevetto.

A questo punto, a Google non è rimasto altro che mettere sul tavolo una disposizione legislativa propria dell'ordinamento giuridico degli Stati Uniti, quella del fair use, cioè dell'uso leale, corretto, in base al quale è consentito un utilizzo limitato di materiale protetto da copyright, senza l'esplicita autorizzazione del titolare dei diritti. E' grazie a questo che la sentenza dei giorni scorsi, pronunciata ancora dal giudice Alsup, è stata favorevole a Google.

Nel caso del molto probabile appello, si andrà di nuovo di fronte ad un tribunale federale e ci sono molte possibilità che l'esito questa volta sia a favore di Oracle. Alla fine a dover decidere sarà forse la Corte Suprema, che già chiamata in causa in passato aveva ritenuto che non ci fossero i presupposti per prendere in esame il caso.

La sentenza favorevole a Google ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molti sviluppatori che, pur non copiando del codice, disassemblano abitualmente programmi per imitarne le caratteristiche funzionali, assicurare la compatibilità e garantire uniformità di interfacciamento.