Il presidente del'Istat Giorgio Alleva, merdoledì 26 luglio è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale. Questo, in sintesi, il condtributo offerto dall'istituto nazionale di statistica sul tema "Disuguaglianze, distribuzione della ricchezza e delle risorse finanziarie".

Il rapporto presentato alla Commissione rappresenta "una sintetica rassegna delle principali evidenze sulle differenze territoriali nella capacità di produzione del reddito, da un lato, e nel reddito disponibile delle famiglie, dall'altro, considerando i grandi flussi che generano una minore sperequazione del secondo rispetto al primo.

In seguito si illustrano i principali indicatori di disuguaglianza nei redditi e delle condizioni economiche delle famiglie e si conclude con la presentazione di un quadro sulle risorse finanziarie degli enti locali".

 


Formazione del reddito nelle regioni italiane

Nel 2016 il Prodotto interno lordo in Italia ha registrato un aumento in linea con quello nazionale nel Mezzogiorno (+0,9%), lievemente inferiore nel Centro (+0,7%) e nel Nordovest (+0,8%) e superiore alla media nazionale nel Nord-est (+1,2%).

In termini di Pil pro capite, i dati disponibili sui conti delle regioni italiane, relativi al 2015, indicano per le regioni del Nordovestu n valore quasi doppio rispetto a quello delle regioni del Mezzogiorno
(33,4 mila euro contro 17,8 mila). I differenziali risultano però ancora più ampi se si prendono in esame le singole regioni.

Per quanto riguarda la classifica del Pil suddivisa per abitante, la regione con il Pil procapite più elevato è la Provincia di Bolzano/Bozen, oltre i 40 mila euro (41,1 mila euro), valore pari a oltre una volta e mezza (52,1%) la media nazionale di 27 mila euro per abitante.

Segue la Lombardia, con quasi 36 mila euro (35,9 mila euro). Le regioni del Centro presentano un Pil per abitante piuttosto differenziato, con valori compresi tra un massimo di 31 mila euro (14,5% in
più del livello italiano) per il Lazio e un minimo di circa 24 mila euro (23,7mila euro) per l’Umbria; quest’ultima ha un differenziale negativo di circa il 12 per cento rispetto al valore nazionale.

Il Pil per abitante nel Mezzogiorno risulta inferiore di circa un terzo (34,2%) rispetto a quello medio italiano, con differenziali negativi rilevabili in tutte le regioni meridionali, con ampiezza variabile: se l’Abruzzo (24,2 mila euro) esprime un gap ridotto rispetto al resto del Paese, per le altre regioni il livello è compreso tra i 19,5 mila euro della Basilicata e i 16 nmila della Calabria.

È in Calabria che si rileva la situazione più sfavorevole, caratterizzata da un differenziale negativo di circa il 39% rispetto alla media nazionale.

In termini di evoluzione nel medio periodo questo andamento - nel corso degli anni - è mutato di poco.

 

 

Le diseguaglianze economiche nel territorio

Quali sono, pertanto, le conseguenze pratiche sul territorio di questa ripartizione del Pil? Una diseguaglianza dei redditi a livello regionale.

Le regioni dove si registrano le differenze più elevate sono la Sicilia, dove il quinto più ricco ha un reddito superiore di oltre otto volte rispetto a quello più povero (8,3) e, anche se con un divario minore, il Lazio, dove il rapporto è pari a 6,5 volte; per le stesse regioni, rispetto al 2008, si registra anche il maggiore incremento di tale indicatore (rispettivamente +2,6 e +1,5).

Nello stesso arco di tempo, anche se in misura meno accentuata, cresce la distanza fra i redditi più elevati e quelli più bassi in Sardegna, Puglia e Lombardia (tutte con aumenti prossimi all’unità).

Un’ulteriore misura di disuguaglianza, che tiene conto della posizione relativa di tutti gli individui collocati nella distribuzione dei redditi, è fornita dall’indice di Gini, che misura la disuguaglianza assumendo valori compresi fra zero - quando tutte le famiglie ricevono lo stesso reddito - e uno, quando il reddito totale è percepito da una sola famiglia.

Anche sulla base di questo indicatore la Sicilia (con un valore dell’indice di 0,364) e il Lazio (0,334) si confermano nel 2015 come le regioni con il più elevato livello di disuguaglianza complessiva, seguite dalla
Sardegna (0,330).

Considerando le variazioni dell’indice negli anni 2008-2015, si rileva una generale riduzione della disuguaglianza dei redditi all’interno delle regioni, con segnali di aumento solo in Sicilia, Umbria e Lombardia.

In Italia, nel 2015, circa un residente su cinque (19,9%) è a rischio di povertà, vive cioè in famiglie che nel 2014 avevano un reddito equivalente inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Il rischio di povertà è cresciuto di poco durante gli anni della crisi, un indizio del fatto che il periodo di involuzione economica potrebbe aver colpito in modo uniforme ricchi e poveri.

Nel 2016, erano circa 1 milione e 600 mila le famiglie in povertà assoluta, pari al 6,3% del totale delle famiglie italiane. In queste famiglie ci sono oltre 4 milioni e 700 mila individui, il 7,9% per cento della popolazione. La distribuzione degli individui poveri non è omogenea sul territorio: poco più di 2 milioni vivono nel Mezzogiorno (43,0%) e circa 1 milione e 800 mila vivono al Nord (38,6%).

Le restanti 870 mila persone risiedono invece nelle regioni del Centro (18,4%). Tra il 2008 e il 2016, il numero di poveri è aumentato in tutte le ripartizioni, ma l’aumento più consistente si è registrato nelle regioni del Centro Italia, dove il numero di poveri è quasi triplicato (da 316 mila a 871 mila individui, pari ad un aumento dell’incidenza da 2,8 a 7,3%) e nelle regioni del Nord, dove è cresciuto di 2 volte e mezzo (da 724 mila a 1 milione e 832 mila individui, pari ad un aumento dell’incidenza da 2,7 a 6,7%).

Il numero degli individui poveri nelle regioni del Mezzogiorno, pur raddoppiando, è cresciuto relativamente meno rispetto alle altre ripartizioni (da 1 milione e 73 mila individui a 2 milioni e 38 mila, con un aumento dell’incidenza da 5,2 a 9,8%).

 


Conti delle Amministrazioni pubbliche

L'ultima parte dell'analisi fornita dall'Istat ha riguardato le risorse finanziarie degli enti territoriali.

Nel 2016, le Amministrazioni locali hanno gestito flussi per 244,2 miliardi in entrata (pari al 24% del totale delle entrate del bilancio pubblico) e per circa 240 in uscita (pari al 22% dell’insieme delle spese della PA).

Una parte molto rilevante delle entrate (circa il 44%) è costituita da trasferimenti provenienti dalle altre Amministrazioni pubbliche (flussi che a livello aggregato si consolidano).

Il livello del saldo netto (indebitamento) delle Amministrazioni locali risulta quindi influenzato da questi flussi finanziari tra diversi livelli di governo. Si può osservare che l’indebitamento ha segnato per l’ultima volta un deficit contenuto (circa un miliardo) nel 2013, per poi toccare 5,6 miliardi nel 2015 e riscendere a 4,2 nel 2016.

Esaminando nel dettaglio il conto delle Amministrazioni locali, emerge che dal lato delle entrate, al netto dei trasferimenti provenienti prevalentemente dal bilancio statale (101,3 miliardi di euro), le quote maggiori derivano dalle imposte indirette, la cui incidenza sul totale delle entrate è pari al 24,3% (59,2 miliardi) e da quelle dirette 15,8% (38,6 miliardi). Gli introiti derivanti dalla vendita di beni e servizi ammontano all’11,4% (27,7 miliardi).

Sul versante delle uscite, pesano per poco meno del 30 per cento i consumi intermedi e i redditi da lavoro (rispettivamente 28% e 27% del totale), mentre i beni e servizi assistenziali acquistati direttamente rappresentano circa il 17% del totale.

Dal lato delle spese in conto capitale, l’incidenza delle spese per investimenti sfiora l’8 per cento (7,7%) sul totale delle uscite. La dinamica delle uscite complessive, nell’ultimo quinquennio, è stata
negativa, con un calo del 2% tra il 2011 e il 2016.

Le risorse economiche delle Amministrazioni locali possono essere ulteriormente analizzate ricorrendo ad alcuni indicatori specifici, che colgono elementi cruciali, quali la capacità di autonomia impositiva e finanziaria e la rilevanza dei trasferimenti da altre amministrazioni pubbliche.

Questa lettura consente, tra l’altro, di far emergere gli effetti delle norme attuative del federalismo, che hanno ridisegnato la struttura delle entrate degli enti locali.

Un primo indicatore è quello di autonomia impositiva, ottenuto come incidenza delle entrate tributarie sull’insieme di quelle correnti. Nel quinquennio 2010-2015, per il totale delle Amministrazioni locali tale incidenza ha subito un incremento di circa 4 punti percentuali, passando dal 41 al 45 per cento.

Un secondo indicatore, quello di autonomia finanziaria, che include tra le risorse utilizzabili dalle amministrazioni anche le entrate extra-tributarie, nel 2015 si è attestato al 58 per cento, con un incremento di 5 punti rispetto al valore del 2010.

Il peso dei trasferimenti da Amministrazioni pubbliche costituisce l’altra grande componente di finanziamento. Esso si è ridotto, nel periodo considerato, di 6 punti percentuali, dal 44 al 39 per cento.

Concentrando l’attenzione sulle amministrazioni comunali, attraverso l’analisi dei dati ottenuti dai Bilanci consuntivi degli enti locali, si osserva che nel 2015 il grado di autonomia finanziaria è pari a circa l’85 per cento (85,3%) a livello nazionale, con un aumento di oltre 26 punti rispetto al 2010 (26,2 pp). L’incremento non ha avuto natura progressiva nel tempo, ma è avvenuto per intero tra il 2011 e il 2012.
La quasi totalità dell’incremento nel grado di autonomia finanziaria è riconducibile a una maggiore autonomia impositiva dei comuni. Infatti, il peso delle entrate tributarie sulle entrate correnti, che nel 2015 era pari a quasi il 65 per cento (63,3%), è cresciuto, nel periodo considerato, di 25 punti percentuali.

L’indicatore è più elevato nei comuni della Puglia (76,0%) e dell’Umbria (72,5%), con valori superiori al 70 per cento, mentre la sua variazione maggiore si registra nei comuni della Sicilia e dell’Umbria, con incrementi di oltre 30 punti percentuali (rispettivamente 32,0 e 31,2 pp).

 

L’analisi degli indicatori relativi alle province evidenzia alcuni degli effetti prodotti dalla progressiva attuazione del federalismo fiscale, come crescita dell’autonomia impositiva e soprattutto finanziaria, anche se in misura sensibilmente inferiore a quanto accaduto per i comuni e con una battuta d’arresto negli anni recenti.

Nel 2015, il grado di autonomia impositiva si attesta a quasi il 55 per cento (54,6%) su scala nazionale, con un aumento di 6 punti rispetto al 2010.

L’indicatore cresce di più nelle province delle Isole e del Centro, rispettivamente di 15 e circa 10 punti. Nel Lazio, dove le amministrazioni provinciali e la città metropolitana di Roma presentano il grado più elevato di autonomia impositiva, il livello dell’indicatore è superiore al 70 per cento e registra una aumento di oltre 10 punti rispetto al 2010.

Nelle province del Molise e della Lombardia si rileva invece la diminuzione più grande dell’indicatore durante gli anni dal 2012 al 2015.

 

A livello regionale, l’indicatore è più elevato nelle province del Molise (80,0%), dove si registra anche l’incremento maggiore, quasi 30 punti, mentre raggiunge il livello minimo in Friuli-Venezia Giulia (23,4%). Quest’ultima regione, insieme alle Marche, segna una variazione negativa dell’indicatore durante tutto il periodo considerato.

La dipendenza erariale si attesta a livello nazionale al 3,7%. Il livello più elevato dell’indicatore, 19,0%, è rilevato nelle province della Calabria; il più basso, 0,9%, in quelle del Friuli-Venezia Giulia.

 

Gli effetti derivanti dall’introduzione del federalismo fiscale presso le regioni e province autonome appaiono di non facile interpretazione alla luce dell’andamento degli indicatori economico-strutturali e delle voci di bilancio.

Tra il 2010 e il 2012, la dipendenza erariale delle Regioni e delle Province autonome mostra, a livello complessivo nazionale, una diminuzione (da 11,8% a 10,4%) seguita da un aumento tra 2013 e 2015, portandosi su un valore superiore a quello del 2010 (12,7%).

Questa dinamica ricalca l’andamento rilevato nel periodo in esame delle entrate da contributi eassegnazioni correnti da parte dello Stato, che diminuiscono fra il 2010 e il 2012 per poi crescere sensibilmente nel triennio successivo.

A livello territoriale, la dipendenza dall’erario appare più marcata al Sud e nelle Isole rispetto al Centro-nord, anche se la situazione è notevolmente diversificata fra i singoli enti: la Campania e la Puglia presentano nel 2015 i valori più elevati (rispettivamente 41,1% e 31,9%), seguite dalla Sicilia (19,1%).

Le regioni Calabria e Sardegna, invece, fanno registrare i valori più bassi (rispettivamente, 6,9% e 4,2%). Un andamento simile a quello delle entrate da contributi e assegnazioni correnti da parte dello Stato si registra anche per le entrate tributarie, che diminuiscono fra il 2010 e il 2012 per poi aumentare fra il 2012 e il 2015.