ADAPT è una associazione senza fini di lucro, che ha sede a Modena, fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere, in un'ottica internazionale e comparata, studi e ricerche di lavoro.

Nel 2015, ADAPT pubblicava un'analisi redatta da Francesco Nespoli, Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi sull'attuazione del Jobs Act. Dopo aver analizzato le premesse della riforma, questo erano le conclusioni.

La risposta che gli italiani si attendono sul lavoro è presto data e la si trova nei numeri forniti dall’Istat: il mercato del lavoro è praticamente fermo, non cresce cioè il numero di occupati. Cresce invece la disoccupazione mentre il numero di giovani con un lavoro tocca il suo minimo storico. Troppo presto per parlare del Jobs Act, abbiamo detto, ma non per certificare un vero e proprio flop dell’esonero contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato.

Una misura chiave a sostegno della fase di avvio del Jobs Act, in vigore da otto mesi e oramai in fase di esaurimento, che non ha contribuito a creare un solo posto di lavoro in più pur a fronte di un costo reale che si avvicinerà ai 20 miliardi e di cui in parte manca ancora la copertura.

Per i modesti risultati sul fronte occupazionale meglio e molto di più ha fatto la legge Fornero che, nel restringere i requisiti di accesso alla pensione, ha contribuito a un robusto incremento della forza-lavoro over 55 ancora una volta a scapito dei giovani che sono stati i più penalizzati non solo dalla crisi ma anche dalla scarsa efficacia delle politiche del lavoro degli ultimi Governi.


Francesco Nespoli, Francesco Seghezzi, il 13 marzo 2017, trascorso poco più di un anno, hanno di nuovo analizzato per ADAPT il mercato del lavoro dopo il Jobs Act. Eccone il giudizio suddiviso per argomenti.

Risultati del Jobs Act sulla base dei contratti di lavoro (dati Inps)
I dati di flusso elaborati dall’Inps hanno registrato nel 2015 un consistente aumento dei contratti a tempo indeterminato, pari a 934mila in più rispetto all’anno precedente. Questo a conferma del fatto che l’effetto della decontribuzione (più che quello della riforma dell’articolo 18), nel 2015, è stato evidente.

Altrettanto evidente è stata però la brusca frenata che si è verificata nel 2016, anno in cui la crescita netta dei contratti a tempo indeterminato si è fermata a 82mila, con una contrazione del 91% rispetto all’anno precedente. Un numero che, oltretutto, resta positivo in virtù della riduzione del numero di contratti cessati (circa 123mila unità in meno).

Al contrario, sul fronte dei contratti a tempo determinato, la dinamica è stata opposta. Se nel 2015 questi erano diminuiti di 253mila unità, non appena la decontribuzione si è ridotta, ossia nel 2016, abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%). Complessivamente i nuovi contratti a termine sono cresciuti continuativamente dal 2014 anno in cui erano 3.366.226, passando alle 3.460.756 del 2015 per poi subire una crescita dell’8% nell’ultimo anno arrivando a 3.736.700.


Risultati del Jobs Act sulla base del numero di occupati (dati Istat)
Emerge dai dati statistici che nel 2015 abbiamo avuto 238mila occupati permanenti in più, mentre nel 2016 l’incremento è stato di 111mila. Per quanto riguarda invece gli occupati a termine nel 2015 essi sono stati 34mila in più, mentre nel 2016 la crescita è stata di 155mila unità (+6,6%). Sia nel 2015 che nel 2016 è continuato il trend di crescita dei lavoratori a termine sul totale. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7 nel 2015 e al valore record di 14,4 nel 2016.

Volendo dipingere uno scenario più ampio, alla fine del 2016 avevamo in Italia 22.783mila occupati, con un tasso di occupazione pari al 57,3% della forza lavoro. Un dato che confrontato con il 2007 pre-crisi mostra la diminuzione di 264mila lavoratori e soprattutto (considerando anche la crescita della popolazione e la forza lavoro cresciuta di 1,2 milioni di unità) la diminuzione dell’1,5% del tasso di occupazione.

Se confrontato con il 2013 abbiamo 604mila occupati in più e un 1,8% di aumento del tasso di occupazione. Sul fronte del lavoro autonomo negli ultimi anni si è assistito ad un calo complessivo del loro numero, se nel 2014 erano 5,546 milioni, a fine 2016 erano scesi di 158mila unità arrivando a 5,388 milioni. Tra le possibili ragioni di tale diminuzione potrebbe essere individuata quella della stretta sulle “false partite IVA” prevista dal Jobs Act, ma occorre allo stesso tempo ricordare come la diminuzione dei lavoratori autonomi sia una costante ormai da oltre dieci anni.

Più complesso invece avere una panoramica aggiornata del numero di collaboratori. Dati ultimi dati Inps che si riferiscono al 2015, indicati come provvisori, si evince un calo costante a partire dal 2011 con una accelerazione nel 2013 (anno in cui sono diminuiti di 92.623 unità) e nel 2015 (anno in cui sono diminuiti di 51.007 unità).


Occupazione per fasce d'età (dati Istat)
Il risultato di questi dati è difficilmente equivocabile e mostra come siano stati i lavoratori più maturi quelli interessati dalla crescita occupazionale degli ultimi anni. E questo consente di guardare con una luce nuova gli effetti non tanto del Jobs Act, quanto quelli della riforma delle pensioni dovuta alla Ministro Fornero. Infatti se i pensionati in Italia erano 16,593 milioni nel 2012, il numero si è ridotto a 16,179 milioni nel 2015, con un calo di 414mila unità. Si può dedurre quindi che una buona parte dell’aumento occupazionale al quale si è assistito negli ultimi due anni sia dovuto soprattutto alla crescita del numero di lavoratori per i quali la pensione si è allontanata.


Costi della decontribuzione
Un ultimo dato interessante, tra i tanti che si potrebbero ancora illustrare, è relativo ai costi della decontribuzione. Trattandosi infatti di un esonero contributivo i costi si realizzano come effetti negativi per la finanza pubblica e crescono quindi a seconda del numero di contratti che hanno chiesto l’esonero e alla loro durata. Una valutazione completa si farà soltanto alla fine del 2019, quanto è possibile fare ora è vedere innanzitutto le stime fatte dal governo che prevedono per la decontribuzione del triennio 2015-2018 un “costo” di 15,09 miliardi, mentre per quella del biennio 2016-2018 altri 4,31 miliardi, per un totale di 19,4 miliardi. La stima si fonda su un numero di contratti che beneficiano dell’esonero pari a 1 milione sia nel 2015 sia nel 2016, ma nel primo anno il numero dei beneficiari è stato di 1,170 milioni mentre i dati provvisori del 2016 riportano di 616mila contratti. Possiamo quindi ipotizzare, seguendo le stime del governo, una spesa di circa 20 miliardi di euro.


Conclusioni
Se è ancora presto per un giudizio complessivo del Jobs Act, quello che è possibile dire in questa fase è che se l’obiettivo era quello di invertire in modo strutturale il trend dei nuovi contratti di lavoro, a vantaggio di quelli a tempo indeterminato, questa operazione non è riuscita. Infatti la riduzione della decontribuzione è coincisa con un ritorno all’andamento precedente alla riforma.

 

*** *** *** *** *** *** *** ***

Francesco Nespoli
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo

Francesco Seghezzi
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University press

Michele Tiraboschi
Professore ordinario di Diritto del lavoro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Coordinatore scientifico ADAPT