La Cassazione ha depositato le motivazioni in base alle quali lo scorso 15 dicembre ha confermato le condanne a un anno di reclusione ciascuno, con pena sospesa, per falsa testimonianza nei confronti del parroco Antonio S. e della suora Cosima R.

I due negarono di aver saputo delle violenze sessuali subite da Annamaria Scarfò, che si era affidata alla loro ‘protezione’, ad opera di un branco di ragazzi – dei quali tacquero i nomi – avvenute in Calabria, a San Martino di Taurianova, quando la donna che oggi ha 31 anni, e vive sotto protezione, era appena tredicenne.

Quindi preti e suore non possono tacere o dire il falso quando sono interrogati dai magistrati, invocando il segreto "confessionale", se sono venuti a conoscenza di fatti penalmente rilevanti nell’ambito della loro attività sociale di assistenza ai soggetti deboli che, sebbene rientri nella generica "missione" degli ecclesiastici, "non rientra certamente nell’esercizio diretto della fede religiosa", unico ambito per il quale è concesso, per le norme concordatarie del 1985, di evitare di rispondere.

Il segreto confessionale – afferma la Cassazione contestando la tesi difensiva dei due imputati condannati alla stessa pena sia in primo grado dal Tribunale di Palmi che in secondo dalla Corte di Appello di Reggio Calabria nel 2016 – non può "investire qualsiasi conoscenza dell’ecclesiastico, bensì riguarda solo quella acquisita nell'ambito di attività connesse all’esercizio del ministero religioso", e dunque non ‘copre’ tutte le "confidenze" delle quali viene a conoscenza.