Lui si chiamava Walter Piludu. Ex presidente Pci della provincia di Cagliari aveva avuto una vita segnata da impegno politico e civile, tra passioni musicali e viaggi, fino a quando la malattia neurologica non lo aveva imprigionato limitandogli gli spazi, non l’animo battagliero. «Io non ho manie suicide, gli occhi di mia moglie, il sorriso di mia figlia, l’affetto di sorelle e amici mi tengono attaccato alla vita nonostante le asprezze di giornate tra tubi nella pancia per nutrirmi e il respiratore. Il mio corpo è immobile, ho solo lo sguardo per comunicare. Vorrei poter decidere io quando andarmene e morire accanto alle persone che amo, senza emigrare in Svizzera. Perché la vita non può essere una prigione, c’è un diritto di dignità e di libertà», scriveva l’anno scorso a Repubblica col puntatore ottico.

La sentenza arriva dal tribunale di Cagliari dove il giudice tutelare Maria Luisa Delitala ha accolto la richiesta del Piludu di vedersi interrotto ogni trattamento, nutrizione e ventilazione, e morire. Non solo, ha invitato i medici a sedarlo aprendo, secondo alcuni, alla possibilità di andarsene serenamente dormendo a tutti i malati terminali che rinunciano alle cure, come avviene in Francia.

Si legge :

«È un diritto rifiutare le cure e andarsene senza soffrire: sedati per non sentire ansia o dolore ». E chi deve garantire una fine dignitosa, «accompagnando e accudendo il malato», è il servizio sanitario nazionale.

Il giudice accoglie il ricorso perché la Costituzione «tutela il diritto alla salute e anche quello ad autodeterminarsi, a scegliere se fare o meno un trattamento sanitario ». Cita il consenso informato «in base al quale si può rinunciare alle cure anche se questo porta alla morte». E aggiunge che «il rifiuto può essere esteso ai trattamenti vitali perché per legge non si possono imporre cure».
Il tribunale ricorda poi come la Cassazione abbia specificato che tutto questo «non è eutanasia, ma la scelta di lasciare che la malattia faccia il suo corso». E alla fine, a mo’ di monito, il giudice segnala ai medici la decisione di aprile del Tar lombardo che condanna la Regione per non aver eseguito la sentenza che imponeva di staccare dalle macchine Eluana Englaro, in coma da 17 anni.