Matt Frazer ha 45 anni. E’ un operaio, lavora per un’ azienda che produce lamiere per automobili. Esce dalla porta di casa alle 8,30 del mattino, compra un cappuccino dal gusto ben diverso da quelli preparati in Italia (dove è stato un paio di volte). Lo sorseggia, poi lo  stringe al petto per allontanare il freddo pungente che già inizia a farsi sentire nei primi giorni di autunno. Percorre la Shield Boulevard per un centinaio di metri; arrivato all’ incrocio con la ventinovesima strada, gira a sinistra, cammina per un’ altra breve distanza ed arriva sul posto di lavoro. Questa è la routine quotidiana di Matt, sabato e domenica esclusi. Oklahoma city è una cittadina di modeste dimensioni (circa 540.000) abitanti, dove si conduce una vita tutto sommato tranquilla. Non è dedita allo svago e alle follie notturne che possono offrire molto più facilmente, ad esempio, città come New York o Los Angeles; tutto quanto scorre ad un ritmo medio, a volte lento, che rende ancora più normale una città che di straordinario non ha nulla.

“Si, è vero, qui non abbiamo molto da fare. Le solite cose, si mangia, si lavora, ogni tanto ci si beve una birra al pub” dice l’operaio di Oklahoma, pronunciando le parole con un ritmo blando, cosciente di quello che offre il posto dove vive; “però, poi, quando arriva il giovedì.. allora ne vale la pena”. “All of us feel something real”, siamo uniti in un sentimento comune. Il giovedì (oppure il mercoledì, dipendentemente dal calendario della NBA) è il giorno in cui gioca in casa la squadra della città, gli Oklahoma City Thunder, residenti ad Oklahoma solo dal 2008, quando la franchigia è stata spostata da Seattle. Il trasferimento della franchigia ha provocato un’ondata di festa e di eccitamento generale in tutta la città. Erano tutti pronti ad accogliere la ventata di rinnovamento che avrebbe regalato qualcosa di nuovo ad una città vecchia, e sotto certi punti di vista obsoleta. Si può dire che dopo otto anni di residenza, ancora oggi il sentimento provato al momento dell’ accoglienza è rimasto immutato. E’ raro trovare qualcuno che non indossi la canotta di uno dei giocatori dei Thunder durante il quotidiano. Le jerseys di Russell Westbrook e Kevin Durant ( anche se da quest’ estate la considerazione dei tifosi dei Thunder nei confronti di Durant è leggermente cambiata vista la sua migrazione verso la squadra della Baia di San Francisco), primeggiano su tutte; poi Steven Adams, Nick Collison, Antony Morrow. Mentre Frazer parla (talvolta uscendo fuori discorso quando inizia a parlare di alcuni aspetti della sua vita personale), due bambini, figli di una coppia afro-americana non molto distante dal giornalista e dall’intervistato, organizzano in pochi secondi una gara di corsa che dura il tempo di percorrere qualche metro. Uno dei due indossa una canotta col numero 0 dei Thunder, Russell Westbrook. La gara la vince proprio lui e, una volta varcato il traguardo immaginario, simula il gesto di infilare le pistole nelle fondine, lo stesso gesto simulato dalla guardia dei Thunder dopo che mette a segno un tiro da tre punti. La conclusione è questa: ad Oklahoma City, nel gesto quotidiano di ogni abitante, si rispecchia tutto l’ amore e l’ ammirazione per la squadra di casa.

A metà settimana, il celeste (il colore dei Thunder) tinge le aspettative e le speranze degli abitanti di Oklahoma che si dirigono verso la Cheasepeake Arena,il tempio dove le emozioni si smarriscono per poi ritrovarsi; il tempio dove, per una notte, tutto diventa possibile. Non si può trascurare una verità: e cioè che è facile perdere l’ equilibrio sulla scala delle emozioni che regalano gli Oklahoma City Thunder; un attimo prima sei in cima a goderti il panorama, grazie ad una giocata vertiginosa; un attimo dopo, sei frustrato perché viene commessa un’ azione di gioco che definire discutibile, per certi versi, è riduttivo. E’ vero che nessuna squadra è perfetta nel suo sistema di gioco ( forse solo i San Antonio Spurs capitanati da Popovich si avvicinano a questo ideale di perfezione), ma i Thunder hanno una particolare affezione a sporcare una bella giocata o a prendere una decisione sbagliata senza che vi sia un apparente motivo. E questo, i loro tifosi, lo sanno bene.

Quando giocano i Thunder, è difficile rimanere incollati alla sedia per gustarsi la partita in tranquillità. Questa (a tratti) meravigliosa squadra dà l’idea di poter competere per il titolo NBA, senza,però, riuscire effettivamente ad arrivare fino in fondo. Che poi è quello che è successo nella stagione appena conclusa, che ha visto i Thunder quasi vincenti in finale di Conference contro i Golden State Warriors, vittime di una rimonta da parte dei giocatori della Baia, che hanno ribaltato il risultato da 3-1 a 3-4 nella serie durante i Playoff  portando i giocatori di Oklahoma ad avviarsi verso gli spogliatoi lasciando le speranze sul parquet di Oakland, espugnato poi dai Cavaliers di Lebron James in sette meravigliose gare.

E’ dura avere il cuore di un Thunder. Perchè il cuore di un Thunder vive in frantumi, non ha un momento di pace. Ma non smette mai di battere. Anche quando tutto si mette male. Come la partenza di Durant di quest’estate verso gli antagonisti che hanno interpretato la rimonta proprio a scapito della-ormai-ex squadra di quell’ All star che ne fece sessanta, qualche anno fa, al Rucker Park di Harlem. Vedere la partenza di un giocatore chiave sul quale si è puntato per tentare di raggiungere l’ obiettivo anello è doloroso e senza precedenti, fa allontanare la speranza generando tanta rabbia. Quella del cuore in frantumi è una vecchia storia.

“La partenza di Durant mi ha sconvolto. Non sono riuscito a pensare ad altro la mattina che ho letto la notizia. Ma io non perdo la fiducia; non vedo l’ ora che ricominci la nuova stagione. Vedremo cosa siamo in grado di fare quest’ inverno”; Frazer, quello normale, quello dalla routine prevedibile, quello che ogni tanto si perde nella confidenza che solo le persone genuine possono condividere con uno sconosciuto, questa volta accenna un sorriso. Lui sa che questo è il prezzo da pagare per chi nasce con gli eterni secondi. Di chi vive con la speranza quotidiana di salire, un giorno, sul gradino più alto del podio. Si dirige verso casa ripercorrendo la ventinovesima strada, mentre si aggiusta meglio il cappello che indossa. Dei Thunder, ovviamente.