Terzo e ultimo dibattito quello della notte scorsa a Las Vegas fra Hillary Clinton e Donald Trump, ad appena tre settimane dal voto.

Naturalmente, ci dobbiamo porre la solita domanda: chi ha vinto? Come se in questo tipo di duelli televisivi possa esserci un vincitore. Accade molto raramente e solo quando uno dei duellanti fa un clamoroso autogol.

Questa volta sembrerebbe che non ce ne siano stati. O forse sì, uno. Dipende quali saranno le valutazioni a freddo della risposta di Trump alla domanda se accetterà il risultato delle elezioni, qualunque esso sarà.

E' stato il moderatore, Chris Wallace, giornalista della Fox, forse il solo di quella rete televisiva a non essere apertamente schierato dalla parte dei repubblicani, a chiederlo esplicitamente.

Una domanda più che legittima, considerato che Trump, per tutto il corso della sua campagna elettorale, ha paventato l'eventualità che le elezioni del prossimo presidente degli Stati Uniti possano, in qualche modo, essere truccate.

La risposta è stata: "Lo vedremo in quel momento. Per ora vi lascio con un po' di suspense." Mettere in discussione il risultato del voto, non accettare l'esito delle elezioni più importanti è una cosa che non è mai accaduta nei 240 anni di storia degli Stati Uniti. Della loro democrazia gli americani amano vantarsi e ne sono orgogliosi al punto che ogni tanto decidono di esportarla.

Quindi, le parole di Trump agli orecchi di qualcuno possono essere suonate come un attentato alla democrazia. "Spaventoso", è stato l'immediato commento di Hillary Clinton, cui il suo avversario ha offerto il destro per mostrarsi scandalizzata.

Rispetto agli altri dibattiti, questa volta ci si è attenuti più rigorosamente, forse anche per merito del moderatore, alle questioni sostanziali: aborto, Corte Suprema, mercato del lavoro, assistenza sanitaria, tasse e controllo delle armi.

Trump ha cominciato bene. E' apparso più preparato del solito, calmo e misurato. Ha toccato quelli che sono i suoi argomenti preferiti: disoccupazione, immigrazione, uso del server di posta privato, trattati di libero commercio.

Si è riferito in particolare al Nafta, il trattato con Messico e Canada per la creazione di un unico grosso mercato nel continente nord-americano, siglato dall'allora presidente Bill Clinton. E' del Nafta, che ha favorito la delocalizzazione delle industrie in Messico, la responsabilità, secondo il miliardario di New York, dell'alto livello di disoccupazione in stati come l'Ohio e la Pennsylvania. Non ha tutti i torti.

La risposta della Clinton è risultata piuttosto debole. Si è limitata a dire che quelle del suo rivale, che in passato ha affidato dei lavori ai cinesi, erano solo lacrime di coccodrillo.

In generale, Hillary è andata meglio della volta scorsa, quando aveva cercato di attirare l'audience dalla sua parte, impersonando la candidata educata e corretta. In questa occasione ha deciso di stare sulla difensiva e di assumere un piglio decisionista, con un atteggiamento già da presidente.

Quando il moderatore ha tirato in ballo il materiale pubblicato da WikiLeaks e in particolare le trascrizioni dei discorsi tenuti alla Goldman Sachs, la Clinton ha contrattaccato accusando Trump di un complotto ai suoi danni, con la complicità di Putin.

Secondo l'ex-segretario di Stato, sarebbero 17 le agenzie militari e civili che accusano la Russia di attacchi informatici contro gli Usa. La dichiarata preferenza di Putin per Trump si spiegherebbe con il fatto che il leader russo preferisce che ci sia un burattino alla testa della maggiore potenza mondiale.

Molte, anche in questo dibattito, le accuse reciproche che i due candidatisi son scambiate. Del resto, è questo il tono di tutta la campagna elettorale e rispecchia il sentimento degli elettori.

Mai come in queste elezioni è successo che si voti non per qualcuno, ma contro qualcuno. Nessuno ama particolarmente il candidato che ha deciso di votare, ma certamente odia l'altro e vuole impedire che venga eletto. Voteranno Hillary, perché non è Trump e Trump, perché non è Hillary, come bene ha sintetizzato questa vignetta dell'Washington Post qualche mese fa.