L'Istat ha reso note le stime preliminari relative all'indice nazionale dei prezzi al consumo per il mese di febbraio 2017.  Rispetto allo scorso mese di gennaio, si registra un aumento dello 0,3% e dell'1,5% nei confronti di febbraio 2016.

Le componenti merceologiche che hanno contribuito al risultato sono gli Alimentari non lavorati (+8,8%, era +5,3% a gennaio) e i Beni energetici non regolamentati (+12,1%, da +9,0% del mese precedente), oltre all'accelerazione della crescita dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (+2,4%, da +1,0% di gennaio).

Di conseguenza, l'inflazione di fondo, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, si porta a +0,6%, da +0,5% del mese precedente, mentre quella al netto dei soli Beni energetici sale a +1,3% da +0,8% di gennaio. L'inflazione acquisita per il 2017 risulta pari a +1,0%.

Da questi dati sembrerebbe che la finalità del Quantitative Easing, portare l'inflazione nell'area euro ad un livello appena superiore al 2% e ridare fiato all'economia, sia in via di attuazione. Ma è proprio così?

Uno studio della CGIA di Mestre induce ad essere meno ottimisti. Dopo 2 anni dall’avvio degli acquisti di titoli da parte della Banca Centrale Europea (attualmente pari a 80 miliardi di euro al mese), i problemi nell’Eurozona dovuti alla bassa inflazione e della stretta dei prestiti alle imprese, in particolar modo in Italia, non sembrano risolti.

L’inizio dell'operazione QE avviata dalla Bce risale al 9 marzo del 2015. In meno di 2 anni, nell’area euro, la Bce ha comprato titoli di Stato per 1.344 miliardi di euro (ultimo dato disponibile al 31 gennaio 2017).

I risultati del QE, nel 2016, hanno fatto registrare un livello medio dei prezzi in tutta l’Area euro pari ad un aumento dello 0,3 per cento. Valore medio registrato anche in paesi come Francia e Germania.

Da parte della Bce, dalla data di inizio del 2015 al 31 gennaio 2017 sono stati acquistati 222 miliardi di titoli di stato italiani, producendo il seguenta risultato: l’inflazione nel 2016 è stata negativa del -0,1%, mentre i prestiti alle società non finanziarie (cioè alle imprese) sono scesi del 2,4% (pari a una contrazione di 21,2 miliardi di euro tra novembre 2015 e lo stesso mese del 2016).

Questo il commento del coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, Paolo Zabeo: «L’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Euro ha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria riducendo il costo del nostro debito pubblico, ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non abbia ottenuto i risultati sperati, tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese non ripartono e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe.

Insomma, il bazooka  di Draghi non ha sortito gli effetti sperati. Una quota rilevante di questi 222 miliardi di euro sono finiti alle nostre banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale».

Ma anche per le banche non tutto è rose e fiori. Lo spiega il segretario della CGIA, Renato Mason: «Le regole si stanno assestando sempre più in alto. Prima l’Europa chiedeva alle banche un  patrimonio dell’8 per cento degli impieghi.

Ora bisogna avere il 10-12 per cento circa. In altre parole, la banca per prestare 100 milioni deve avere un patrimonio di oltre 10-12. L’asticella che varia nel tempo per  gli istituti di credito è un problema. Infatti, dura da 2 anni la corsa per adeguarsi alle nuove regole europee, applicate con rigidità e nel periodo peggiore, ovvero nel bel mezzo di una crisi.

Al di là delle responsabilità, comunque, rimane un fatto; la nostra economia ha bisogno di un sistema creditizio efficiente e attento ai territori, in particolar modo alle piccole e medie imprese che continuano ad essere l’asse portante della nostra economia».

Nel 2017, in 12 mesi, L'Europa e, soprattutto, l'Italia riusciranno a raggiungere un obbiettivo che in due anni è stato completamente mancato?