Mettiamo la faccenda in questi termini. Fareste un patto con il diavolo pensando poi di andare in paradiso? È chiaro che la risposta sarebbe un no, secco e deciso, ma solo se non siete dei politici. In quel caso, invece, il patto con il diavolo lo fareste, ma per conto dei cittadini che rappresentate e a loro fareste poi pagare il conto, assicurandogli pure che andranno in paradiso. È così che funziona la politica.

Ed è in questi termini che si può riassumere il Comprehensive Economic and Trade Agreement, più comunemente conosciuto come CETA, l'accordo economico e commerciale globale tra UE e Canada firmato dalle due parti il 30 ottobre 2016, che prevede l'abolizione della maggior parte dei dazi doganali tra i due firmatari e che, secondo la propaganda di coloro che lo hanno sponsorizzato, potrebbe portare ad una crescita del PIL dell'UE pari a 12 miliardi di euro annui.

Prima che il CETA sia completamente operativo, è indispensabile che ottenga l'approvazione di tutti i singoli paesi membri. Ciononostante, alcune parti dell'accordo potrebbero essere già operative a partire dal 1 luglio, in base alle direttive del Consiglio europeo che aveva approvato l'applicazione provisoria dell'accordo.

Un paradosso, uno dei tanti che riguradano questo accordo, visto che in questi giorni è ancora in discussione nelle varie commissioni del Senato e in Aula non è ancora stato votato!

Ma l'opinione pubblica del CETA non conosce nulla, neppure la sua esistenza, quindi da parte della politica, esclusi alcuni partiti, non c'è neppure bisogno di fare opera di convincimento. Tutto avviene rigorosamente all'oscuro dei cittadini italiani.

I partiti politici che in Parlamento sono maggioranza e supportano il governo di turno, almeno in Italia sembrano affetti da schizofrenia. Adesso è la volta del Partito Democratico. Il cibo è stato una specie di biglietto da visita del PD, dall'Expo in poi. E, per tale motivo, tutti coloro che a vario titolo si occupano di cibo, di qualità e di sviluppo sostenibile sono stati indicati come esempio e fiore all'occhiello di quanto di buono c'è in Italia. Tra queste organizzazioni vi è, ad esempio, Slow Food.

Ecco che cosa dice Slow Food riguardo al CETA, in un messaggio inviato al presidente del Senato Pietro Grasso, nella cui Aula il prossimo giovedì, probabilmente, l'approvazione dell'accordo sarà messa in votazione.

Il Ceta, come tutti gli accordi commerciali di ultima generazione, prevede di realizzare i maggiori benefici per gli attori commerciali delle due Parti, introducendo non soltanto l’azzeramento di oltre il 90% delle barriere tariffarie, rispetto al cui impatto il nostro Governo non ha realizzato (o quantomeno pubblicato) alcuna valutazione condivisa con le due Camere, portatori d’interesse e cittadini. Sono, in realtà, le barriere non tariffarie, e dunque il complesso sistema di standard, regole di produzione, di protezione della qualità e dell’ambiente, che andrebbero ad essere “semplificate” col Ceta, con l’unico criterio cogente della facilitazione commerciale, in modo permanente in più di una decina di Commissioni apposite create dal trattato e sottratte allo scrutinio tecnico e parlamentare, sia di livello comunitario, sia nazionale.

È ormai urgente che gli accordi di libero scambio debbano essere effettivamente posti al servizio di obiettivi più vasti quali l’occupazione, i diritti umani, la coesione sociale e lo sviluppo sostenibile. A tal fine è indispensabile una maggiore democratizzazione e trasparenza dei negoziati a partire da una definizione dei mandati affidati ai negoziatori, che risponda alla domanda dei cittadini e non solo alle pressioni delle lobbies economico-finanziarie.

Il Ceta non soddisfa questi obiettivi e queste esigenze di trasparenza e pertanto non è e non può diventare un modello di riferimento per la prossima generazione di accordi; inoltre i vantaggi attesi in termini di crescita degli scambi e dell’occupazione sono dubbi o assai limitati e non tali da giustificare i rischi insiti nell’accordo sottoposto alla ratifica.

Il Ceta, inoltre, include l’Investment Court System (Ics), un sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati e l’Ue dinnanzi a una corte arbitrale. L’Ics sostituisce nominalmente il meccanismo Investor to State Dispute Settlement (Isds), ma mantiene inalterati tutti gli aspetti controversi, poiché, contrariamente a quanto richiesto dal Parlamento europeo nella risoluzione del luglio 2015: i) il diritto a regolamentare non è adeguatamente protetto; ii) i membri della corte arbitrale debbono avere esperienza di giudizio ma al momento non sarebbero giudici ‘di ruolo’; iii) la giurisdizione degli Stati membri e dell’UE non è protetta (non c’è l’obbligo di esaurire i rimedi interni prima di adire l’ICS); iv) le norme UNCTAD e OECD sulla responsabilità degli investitori non sono tenute in considerazione, cosicché il sistema è sbilanciato a favore delle imprese.

Sul fronte dell’export agroalimentare, all’Italia sono riconosciute appena 41 indicazioni geografiche a fronte di 288 Dop e Igp registrate; con la conseguente rinuncia alla tutela delle restanti 247 ed impatti gravissimi sul piano della perdita delle qualità del nostro made in Italy. Contemporaneamente, le “volgarizzazioni” legate ai nomi dei prodotti tipici dell’italian sounding (ad esempio, il Parmesan su tutti) coesisteranno con le denominazioni autentiche dei nostri prodotti. La combinazione del principio della «fabbricazione sufficiente» con il criterio del codice doganale rende, di fatto, impossibile l’evidenza dell’origine del prodotto.
Va infine richiamato che il sistema di cooperazione regolatoria potrebbe portare Governi e imprese a sindacare direttamente in ambito arbitrale qualsiasi misura che leda la “libera concorrenza”. Un sistema, quest’ultimo, che investe anche il tema degli Ogm con ripercussioni inevitabili sul “principio di precauzione”. In caso di inesattezza o disaccordo scientifici, infatti, si applica al massimo un divieto temporaneo, giungendo ad un’interpretazione del principio di precauzione molto più limitata rispetto a quella che prevale di solito all’interno dell’Ue.

Di segno analogo ci sembra l’applicazione del principio di equivalenza delle misure sanitarie e fitosanitarie che consentirà ai prodotti canadesi di non sottostare a nuovi controlli nei Paesi in cui verranno venduti. Ricordiamo che in Canada sono impiegate 99 sostanze attive vietate nella Ue.

Le nostre organizzazioni, a seguito di queste considerazioni, saranno impegnate per informare e sensibilizzare i Parlamentari italiani chiedendo loro di non votare a favore della ratifica dell’accordo. I rischi del ritorno al protezionismo e i pericoli insiti in possibili guerre commerciali non si combattono con un’acritica promozione della liberalizzazione e della deregolamentazione degli scambi e degli investimenti, che non farebbe altro che alimentare ulteriormente la deriva populista, ma impegnando l’Unione Europea e i suoi partner nell’impresa di ridisegnare politiche commerciali multilaterali e bilaterali al servizio dell’interesse generale, della qualità dello sviluppo, della cooperazione tra paesi e aree regionali nella costruzione di un diverso, più equo, inclusivo e democratico sviluppo dell’economia e delle nostre società.

L'appello porta la firma di Roberto Moncalvo per Coldiretti, di Susanna Camusso per Cgil, di Francesca Chiavacci per Arci, di Elio Lannutti per Adusbef, di Alessandro Mostaccio per Movimento Consumatori, di Rossella Muroni per Legambiente, di Giuseppe Onufrio per Greenpeace, di Carlo Petrini per Slow Food, di Rosario Trefiletti per Federconsumatori, di Monica Di Sisto per Fair Watch.

Ma come, coram populo, Slow Food ci viene indicata come una specie di oracolo per quanto riguarda cibo, ambiente, salute, buone pratiche di agricoltura e allevamento e, quando esprime un parere su un argomento di diretta competenza non viene neppure ascoltata? Ma che strano paese è il nostro e quanto strana è la clase politica che lo rappresenta.

Inoltre, per l'Europa, siamo proprio certi che fosse indispensabile firmare il CETA? Nel 2015, in base ai più recenti dati Eurostat6, l'Unione europea ha registrato un surplus commerciale "record" di 6,9 miliardi di euro negli scambi di beni con il Canada, frutto di un aumento delle esportazioni dei prodotti 'made in Ue'. Inoltre ha importato beni dal Canada per 28,3 miliardi di euro. Si è invece ridotto il surplus dell'Ue nel commercio di servizi, sceso da 5,1 miliardi del 2014 a 3,8 miliardi. E c'è pure da considerare che questi dati tenevano conto del Regno Unito il cui bilancio con il Canada incideva negativamente per circa 6 miliardi di euro!

Ma che bisogno c'era di liberalizzare gli scambi tra i due paesi, mettendo a rischio le specificità delle piccole produzioni europee, quando già l'Europa godeva di una situazione di favore? Ma con il nuovo accordo, probabilmente, il PIL aumenterà di 12 miliardi l'anno. Probabilmente! Ma se anche ciò dovesse essere, quale sarebbe il guadagno se poi, come è sicuro che avverrà, questo accordo avrà costi altrettanto alti in termini sociali, economici ed ambientali?