Il 7 maggio 1898 a Milano viene proclamato uno sciopero generale contro le dure condizioni di vita, a cui i cittadini decidono di aderire in massa riversandosi nelle strade e innalzando barricate. E' definita anche la “protesta dello stomaco” (poiché la rivolta scattò per l'aumento del prezzo del pane).

Venerdì 6 maggio 1898 verso mezzogiorno, alcuni agenti della polizia s'infiltrarono tra gli operai della Pirelli di via Galilei; approfittando della pausa pranzo venivano distribuiti in fabbrica dei volantini di protesta, su cui c'era scritto che il vero responsabile della carestia del paese era il governo. La polizia mise agli arresti molti sindacalisti e operai della fabbrica; si mosse Filippo Turati, deputato dal 1896, per la scarcerazione degli arrestati, solo una persona restò in questura. Per la sua liberazione si mossero, oltre ai lavoratori della Pirelli, anche gli operai di altre fabbriche cittadine. Al termine della giornata l'astio tra gli operai e la polizia non cessò: verso sera i poliziotti, in risposta ai sassi lanciati contro di essi, spararono alcuni colpi.

Verso le 18.30, un drappello del secondo battaglione del 57esimo Reggimento Fanteria “Abruzzi” comandato da Luca Montuori, venne richiamato da forti rumori provenienti dalla Questura di Via Napo Torriani; lì una folla di 1000 dimostranti assediava la questura. Per uscire dal blocco creato dalle persone le truppe, dopo uno squillo di tromba, incominciarono ad aprire il fuoco sulla folla. I morti, fortunatamente, furono solo tre; questo in pratica fu il primo cruento scontro tra militari e manifestanti avvenuto a Milano e questo episodio fu tra le principali cause del precipitare degli eventi successivi.

Il giorno seguente, sabato 7 maggio, fu proclamato uno sciopero generale di protesta; aderì l'intera cittadinanza che si riversò nelle strade di Milano: operai, tabacchine, macchinisti ferroviari. Le barricate furono innalzate in vari punti della città: Porta Venezia, Porta Romana, Porta Vittoria, Porta Ticinese e Porta Garibaldi. L'allora generale Bava addetto al coordinamento delle truppe nella città di Milano, fece di piazza Duomo la sua base operativa per respingere i dimostranti verso le porte della città. Nel pomeriggio il governo diede pieno potere al generale, perché si pensava che dietro a questi disordini ci fosse un principio di rivoluzione verso il governo stesso. Così entrò in azione la cavalleria, azione fallita per via delle barricate e delle tegole lanciate verso di essi dai tetti. Quindi le forze di polizia e le truppe iniziarono ad aprire il fuoco contro i manifestanti.

Nella giornata di domenica 8 maggio la situazione, nell'immaginario collettivo, era destinata a prendere una direzione tragica: i cannoni vennero messi in funzione contro le barricate e la folla, composta da: uomini, donne, vecchi e bambini. A Porta Ticinese la situazione era particolarmente più grave che altrove, perché la folla che presidiava le barricate non era intenzionata a ritirarsi. Allora il generale Bava diete l'ordine di utilizzare l'artiglieria, questo fece disperdere molta della folla, ma causò anche diverse vittime.

L'opinione pubblica fu profondamente scossa dalle azioni intraprese dal generale. Le cannonate contro la folla furono una delle responsabilità più gravi di Bava. La sera dello stesso giorno, il generale Bava telegrafò che la rivolta si poteva ormai considerare “domata”. Nella giornata di lunedì 9 maggio i militari, sotto ordini del generale, continuarono con le raffiche di fucile contro la folla; questo non fece desistere i rivoltosi milanesi che continuarono con tenacia a presiedere le barricate, a conferma del fatto che le rivolte non erano ancora del tutto cessate. Alcuni rivoltosi avevano trovato riparo all'interno del convento dei Cappucini di Viale Piave. I soldati aprirono una breccia nel muro di cinta con cannonate e anche qui ci furono dei morti. Una volta all'interno si trovarono davanti i frati e circa 150 poveri in attesa di ricevere del cibo; tutti furono prelevati e portati in questura. I bersaglieri liberarono anche l'ultima zona di Milano in Largo la Foppa, dopo che altri milanesi rimasero uccisi o feriti.

Per la sanguinaria repressione, Bava venne soprannominato dall'opinione pubblica “il macellaio di Milano”, mentre il governo gli conferì un riconoscimento ufficiale; questo fece sì che l'animo dei milanesi s'inasprì ancor di più. Il 6 giugno 1989 il Re in persona mandò al generale Bava il seguente telegramma: “Le invio questo telegramma perché ho preso in esame le proposte delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A lei poi personalmente volli offrire di motu proprio la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia, per rimediare il grande servizio che ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché l'attesi col mio affetto la riconoscenza mia e della patria. Umberto I di Savoia.”

Il generale Bava ottenne un seggio nel Senato il 16 giugno 1898. I reali dati dei morti che ci furono durante i moti di Milano non sono mai stati certi, forse 88 morti e oltre 400 feriti. La Croce Rossa fornì alcuni dati, ma non ebbe il controllo totale nei soccorsi; inoltre molti dei familiari dei morti e dei feriti decisero di non denunciare e neanche di avvalersi di strutture ospedaliere per evitare di avere delle conseguenze per via della repressione. Tra i soldati si contarono solo due morti: uno si sparò accidentalmente e l'altro fu fucilato sul posto perché si era rifiutato di aprire il fuoco contro la folla.

Una buia e triste pagina della nostra Milano che ha mostrato la poca umanità del governo di allora verso le persone povere che per ottenere quel poco per vivere dignitosamente, ma soprattutto per mangiare, lavoravano duramente nelle fabbriche o in altre realtà. Molti milanesi hanno dovuto pagare con la propria vita il bisogno di alzare la testa verso i soprusi esercitati dal governo, e noi ricordiamo il loro coraggio in queste stesse giornate di una Milano, ormai, totalmente cambiata.