Raccolgo l’appello, ne comprendo la paura, ne comprendo l’urlo. Deve essere drammatico, la parola non lo esprime nella sua potenza, pensare che la memoria di quel che è stato possa finire nascosta nelle pieghe di una stanchezza ingiustificabile.

Lo raccolgo l’appello e, come al solito scrivo, scrivo nella speranza che l’eco dell’urlo di Liliana Segre possa essere raccolto da tutti, da molti, da qualcuno… con la penna in mano, con le parole nella testa, con il cuore che sanguina ancora per quel che è stato: la Shoah.

Non l’ho vissuta, sono nata dopo, ho sessant’anni. Ma in casa mia se ne è parlato tanto. Mia nonna raccontava tanto. E, da ragazza, ho iniziato a leggere, studiare, cercare nei primi cenni della storia di capire, di conoscere. Ho letto tanto. Ho visto tanti documentari. Ho studiato. Non ho capito. Non si può capire. È successo, non deve succedere mai più. Non si può dimenticare. Non si può correre il rischio di dimenticare l’orrore. Non si può provare stanchezza nel trasmettere la storia di quel che è stato. L’orrore che ha attraversato l’Europa e l’Italia ed è ancora così vicino nel tempo da faticare a diventare storia da studiare, non lo possiamo dimenticare.

Avevo ventisette anni la prima volta che sono entrata in un Campo di Concentramento, in Germania, a Dachau. Sensazioni travolgenti, difficili da raccontare. Attaccate alla pelle. Il silenzio che avvolgeva il campo rimandava un rumore stordente, violento, abbacinante. Non riuscivo a muovermi, prigioniera del timore di oltraggiare i morti. Io, visitatore, di un luogo di sterminio, mi sentivo usurpatore della loro sofferenza, della loro paura. Camminavo nello stesso luogo, il terriccio, lo stesso, accoglieva i miei piedi, gli occhi vedevano oltre quel vuoto che appariva. Era come sentire, respirare la disperazione ma sapere di poter uscire fuori, di essere “solo” un visitatore di morte. Loro no.

Ogni cosa che avevo letto, studiato, visto, aveva preso vita, era diventata una realtà accecante. Mi ha trafitta, lacerata. Sono stata malissimo. Continuavo a leggere, studiare, vedere documentari, films, ascoltare per conoscere, per non dimenticare, per avere la forza di fermare la mano, la parola di chi si è stancato, di chi non sa andare oltre o è andato troppo oltre e non vede più niente se non sé stesso.

No, non si può correre il rischio di dimenticare, di rinchiudere nei remoti della memoria la realtà di quegli anni.

Raccolgo l’urlo di Liliana Segre perché correre il rischio di dimenticare brucerebbe di nuovo quelle vite, gli toglierebbe di nuovo la dignità e la vita.

Avevo vent’anni quando una rivista mensile o settimanale, non ricordo, uscì con una copertina, ad anticipare uno speciale sullo sterminio, che suscitò tanto dire: una “catasta” di corpi inermi, pelle attaccata alle ossa, visi scavati, righe lacere delle divise, numeri… Ho usato la parola “catasta” di proposito, per la sua semplicità a graffiare con forza.

Quella copertina è, ancora oggi, nei miei occhi. No, non dimenticheremo. Raccogliamo il testimone e continuiamo a parlare, a raccontare.

Questo è l’urlo di Liliana Segre. No, non dimenticheremo. Promesso!